13 LUGLIO 2013 ORE 08:20 ALCUNI ARTICOLI DAL BLOG DI KATIA: ACCACCACC! E VIVA I DENTI! CHE ORGANIZATION!! QUANDO VUOI FOTOCOPIARE UN ARTICOLO E TE NE ARRIVANO MILLE—CON TUTTI I RICHIAMI ECC ECC. CHIARA E’ OUT, MA SI SVEGLIERA’ MAI? RAGAZZI, FACCIO LA BELLA…! E STOP!!

Storie di Katia

 

MERCOLEDÌ 19 GIUGNO 2013

Massimo Carlotto parla delle sue “Vendicatrici”: “Alle donne il compito di riaprire il conflitto”

Due uomini che raccontano di donne non come vittime ma come vendicatrici. Un romanziere (e drammaturgo) e uno sceneggiatore che, andando contro la corrente, non abbracciano il catastrofismo, non ci seducono doppiando in forma bella il crimine del reale, ma vanno immaginando quello che potrebbe accadere se le donne si unissero e si ribellassero. Una rivoluzione, praticamente. Larivoluzione. Dietro la quadrilogia di Massimo Carlotto e Marco Videtta (Le vendicatrici, Einaudi), c’è una visione politica, e una frequentazione del sottosuolo. Un po’ come facevano Baudelaire e gli scrittori francesi che abbiamo tanto ammirato, i due autori si sono messi ad ascoltare la lingua del mondo di sotto e, una volta risaliti in superficie, hanno forgiato le immagini di quattro donne capaci di reazione, attorno alle quali si muove un esercito di uomini sbagliati. Ksenia, la prima ribelle, ha avuto il suo personale consenso. E c’è da immaginare che l’avranno anche le altre donne stanche di subire violenza, Luz, Eva, e anche Sara, che porterà il mistero più grande, ma solo alla fine della “saga”. Della sua genesi e della sua emersione parliamo qui con Massimo Carlotto: ed è l’occasione per discutere anche di altro, di Roma, per esempio, e di questa nuova fase italiana di conflitto sociale. Ma anche del segreto di una vita come la sua, che al suo punto d’origine ha una vicenda terribile e rocambolesca (raccontata nel Fuggiasco) ma che è stata poi travolta da mille altre figurazioni che lo scrittore e l’uomo hanno saputo costruire, perché«se di vita ce né una sola, di esistenze ce ne sono tante».
Carlotto, come è apparsa l’immagine delle “Vendicatrici”?
Tre anni fa con Marco Videtta abbiamo cominciato a ragionare sulla relazione tra mondo femminile e crisi economica. Abbiamo capito come la crisi stesse ulteriormente erodendo i diritti delle donne, attraverso il ricatto economico.  E che di conseguenza l’escalation di violenza contro le donne avrebbe arricchito molto la cronaca degli anni a seguire.  E su questo abbiamo pensato di costruire un romanzo, anzi quattro romanzi.
Che parlano di donne abusate ma soprattutto di uomini sbagliati.
Il mondo è pieno di uomini sbagliati. Questi uomini sbagliati dominano la vita di altrettante donne in maniera assolutamente devastante. Si, la riflessione era proprio questa: il mondo maschile è evidentemente in crisi e mostra tutta la sua fragilità. L’uomo non riesce più a proporsi in maniera positiva e ha bisogno di imporsi attraverso il dominio, il possesso. Non sa vivere senza punti di riferimento e non è in grado di ricominciare.
Questa violenta fragilità del maschile è oggi solo più evidente, nelle sue denunce e narrazioni ,oppure è esplosa come non era mai successo prima?
Il modello dominante è stato quello patriarcale, e oggi il fallimento di questo modello è talmente evidente che sono saltati i pilastri e i lacci che lo reggevano. La contraddizione è esplosa. Quindi l’idea era questa: scriviamo non un romanzo ma quattro romanzi per raccontare la vita delle donne ma anche e soprattutto la storia degli uomini sbagliati.
Come e quando verranno a farci visita le vostre vendicatrici?
Dal materiale che è emerso abbiamo individuato quattro filoni: la disperazione delle straniere che le spinge a sposare un italiano (le spose siberiane);il gioco d’azzardo raccontato attraverso la figura di Eva; il mondo della prostituzione (la colombiana Luz); infine c’è il personaggio di Sara, che porta in sé un grande mistero. Ksenia e Luz sono straniere, Sara ed Eva sono romane. A maggio è uscito il primo romanzo, a giugno il secondo, il terzo uscirà a settembre e il quarto infine è previsto in libreria per novembre. Era importante che uscissero in tempi ravvicinati.
Il motivo della vendetta è un motivo ancestrale. Perché avete deciso di lavorare su un elemento così arcaico, irriducibile ad altro?
E’ vero che il tema della vendetta è un tema arcaico, ma le nostre vendicatrici non si vendicano solo perché è giusto e necessario. Le loro azioni sono un primo passo verso il riscatto, verso una vita degna. Per noi la vendetta è la ribellione delle vittime. Se oggi il mondo femminile non apre un conflitto con questi uomini sbagliati, avremo sempre e solo una situazione di difesa ma non la soluzione del problema.
Che è anche un modo per uscire dal vittimismo.
Esattamente.  Sulle vittime e sul vittimismo il discorso sarebbe lungo. Ma quello che è sicuro è che le donne vivono una grande solitudine.
Ksenia, Eva, Luz e Sara che soluzione trovano alla tragedia della solitudine?
Sono un gruppo di donne che si mettono insieme e proprio nell’unione trovano la forza per salvaguardare i sentimenti più forti: l’amore, l’amicizia, la solidarietà, il senso della vita. La vita diventa un progetto che diventa realizzabile solo nell’unione.  Il primo passo è affrancarsi da questi uomini sbagliati e per affrancarsi le donne non possono che passare però attraverso una inziale difesa.
La solitudine è l’arteria che infetta l’organismo malato del Paese…
E’ così. Se pensiamo che solo a Roma ci sono 3.500 sale da gioco, tra slot machine e affini. Per raccogliere il materiale per Le vendicatrici, abbiamo passato molto tempo dentro i bingo, frequentati da uomini e donne, e lì tocchi con mano quanto sia devastante la solitudine. Il gioco è diventato un modo per tenere in piedi un’esistenza che non ha riparo e sostegno da nessuna parte. Quindi, da una parte c’è la tragedia della solitudine, e dall’altra c’è una generale incapacità di reazione alla crisi.  Roma produce grandissima solitudine, è la città stessa a produrre separazione. Vuol dire che questo modello sociale è completamente fallito. E le donne sono i soggetti più a rischio. Per superare la solitudine sono pronte ad accettare situazioni terribili.
Perché poi alle volte il tuo carnefice si traveste da protettore e ti  fa sentire “in famiglia”, come se la famiglia fosse sempre una cosa bella, mentre è proprio lì dentro che si sviluppano i sistemi più sofisticati di potere e sopraffazione.
Nelle Vendicatrici cerchiamo proprio di mettere  a nudo tutti questi meccanismi di falsa protezione. La cosa nuova è proprio il punto di vita: il racconto di chi poteva essere una vittima totale e invece, alleandosi con altre donne, si ribella e in questo modo cambia il proprio destino.
E per costruire i ritratti degli uomini sbagliati a quale mondo avete fatto riferimento?
In questi quattro romanzi abbiamo definito in maniera molto chiara quello che non ci piace degli uomini. Ci sono tantissimi personaggi e ognuno di loro, senza essere uno stereotipo, rappresenta un aspetto che ci interessava raccontare: il rapporto tra gli uomini e il sesso, per esempio. Quello che narriamo del mondo della prostituzione si basa sulle innumerevoli interviste che abbiamo fatto ad alcune professioniste del sesso. Questo per dire che le figure descritte sono assolutamente reali. Naturalmente c’è anche molta ironia nella descrizione di una certa romanità.
Crede che questo sia un momento storico di nuova conflittualità sociale? E come si manifesta rispetto agli anni caldi della contestazione di cui lei, come giovanissimo militante di Lotta Continua, negli anni Settanta era stato protagonista?
Per molti anni, il noir per me è stato uno strumento straordinario per raccontare la crisi, il suo arrivo e la sua conclamazione. In questa fase della storia italiana, è importante però passare dalla letteratura della crisi alla letteratura del conflitto.  Questi quattro romanzi raccontano proprio il conflitto nato dalla crisi, che non è solo un conflitto di tipo sociale ed economico, ma è anche antropologico, culturale. Perché la crisi sta modificando tutto. Parlare esplicitamente della condizione femminile significa entrare nel cuore della letteratura del conflitto. Io penso che il conflitto oggi sia una dimensione generalizzata che però ha molte sfaccettature. Per esempio il come le persone vivono le crisi è in sé e per sé una forma di conflitto perché porta modificazioni antropologiche. Per quel che riguarda la condizione femminile, l’emergenza della cronaca è solo la punta dell’iceberg. Perché quando tre anni fa avevamo intuito che si sarebbe arrivato a questo tipo di violenza contro le donne, ci eravamo posti l’obiettivo di raccontare quello che c’è sotto. Quello che c’è in superficie, la cronaca, non basta. Molti autori e molte autrici stanno narrando questi fatti di cronaca, ma a noi non sembrava sufficiente. Quello che a noi premeva era di dire in maniera molto chiara che oggi le donne devono aprire un conflitto nei confronti di questo mondo maschile sbagliato. Questo è un compito che si devono assumere sia uomini che donne. L’idea delle vendicatrici è un’idea politica.
Nel primo romanzo si parla di via Merulana. E’ lì che avete vissuto per fare la vostra ricerca sul campo?
La nominiamo soprattutto come omaggio a Gadda, al Pasticciaccio brutto di via Merulana. Diciamo che la protagonista è la città di Roma, una città in cui la violenza è riesplosa a livelli incredibili.
Il film di Sorrentino ha fatto puntare i riflettori di nuovo su Roma e sui suoi feroci e sublimi contrasti. Roma della grande bellezza e Roma delle grandi miserie. Che Roma è quella che conosce lei?
Anche se vivo a Padova, Roma la conosco bene perché l’ho frequentata fin da bambino (ci vivono  alcuni parenti), e poi ci lavoro perché l’agenzia , le case editrici e le case di produzione con cui collaboro sono tutte a Roma. E’ una città che amo moltissimo. Ma è anche una città che mi ha colpito nella sua trasformazione negativa. Il mio è un giudizio anche politico, perché penso che la giunta Alemanno abbia spalancato le porte al peggio. Con una congiuntura criminale di un certo tipo: riciclaggio, corruzione anche nelle istituzioni. Imprenditoria, finanza e politica sono diventati i luoghi dove meglio si infiltrano le mafie.  Roma è stata la prima città d’Italia che ha reso palese e profonda per esempio la trasformazione del mondo dell’usura. Non è più una dimensione di quartiere, ma è diventato un collettore di soldi che poi vanno a finanziare determinate situazioni: così l’usuraio si è trasformato in una banda. Nato a Roma, questo modello si è espanso e ha infettato tutto il territorio nazionale. Questo per dire che evidentemente a Roma c’è una situazione sociale allarmante che ha portato a una trasformazione criminale diventata un prototipo.
C’è una domanda che avrei sempre voluto farle. Quale è stata la chiave di volta affinché la sua lunga e travagliata vicenda originaria che ha raccontato nel “Fuggiasco” non arrivasse a schiacciarla ma diventasse invece combustibile per una svolta autoriale, consapevole? Come è diventato lucido testimone dell’assurdo?
Non lo so. Sono passati quarant’anni dall’inizio della vicenda e vent’anni dalla fine. E’ una vita fa. Io non ci ho più pensato. Nel momento in cui ho scritto l’ultima pagina del Fuggiasco, ho chiuso con quella vicenda. Ho chiuso con quella esistenza. Perché c’è una vita sola ma le esistenze possono essere molte.
Cosa rappresenta il teatro per lei?
Una cosa di cui ho bisogno per vivere. Io devo scrivere almeno un testo teatrale all’anno. E’ una gioia incredibile. Credo che il teatro sia la forma artistica più vitale e interessante. Oltre alla letteratura, ovviamente.
(Pubblicata sul settimnale “Gli Altri”)

GIOVEDÌ 23 MAGGIO 2013

Rossana Campo, il posto delle donne

–> 

Rossana Campo torna al romanzo con un titolo di disarmante chiarezza: Il posto delle donne (Ponte alle grazie, 152 pag, 10 euro). Ma in verità non c’è un posto più enigmatico del posto delle donne. In questo libro, tutto sfuma sfugge e si incrina attorno a un amore, e poi a un delitto. Siamo a Parigi, oggi. Una storia di eros, amicizia, morte, tradimento. Dove la protagonista che investiga su un assassinio si imbatte in un ambiente di maschilismo nero. La scrittura è morbida, in grado di avvolgerti mentre corri a leggere tutto, fino alla fine. E poi pensi all’autrice, che non ha fatto altro in tutta la sua vita che scrivere di altre donne e di quel punto di congiunzione tra amore e violenza, in declinazioni delicate, e complici. E allora ti viene spontaneo andare da lei e farle qualche domanda.
Rossana, ad un certo punto del suo ultimo romanzo lei fa dire ad uno dei suoi personaggi: «Secondo te esiste un amore che non ci sottomette?». Ecco, esiste quest’amore?
Me lo chiedo da tanti anni. In questo caso, volevo raccontare una storia un po’ diversa dal solito. Sono partita da una storia d’amore tra donne. Apparentemente, non c’entra niente il tema del femminicidio o più in generale il tema della violenza di un uomo su una donna. Invece c’entra anche qui. Emma, la protagonista del romanzo, anche per rielaborare altri lutti e altri abbandoni, cerca di andare a fondo rispetto ad  un omicidio che era stato liquidato molto in fretta. E perché era stato liquidato? Perché la ragazza uccisa veniva dalla provincia e faceva la lapdance a Pigalle. A chi può interessare la morte di una così?
Quali zone inconsce smuovono i casi di femminicidio?
Io non volevo scrivere sul femminicidio, ma mi stanno intervistando sul femminicidio quindi vuol dire che  ho toccato qualcosa che non ero cosciente di toccare. In questo caso, fino all’ultimo Emma non sa si sa se ad uccidere sia stato un uomo o una donna, ma di sicuro è stata uccisa una donna. E’ una morte violenta. Perché così tanta violenza sulle donne? Le donne hanno rotto il muro della vergogna, del sentirsi vittime, e denunciano molto di più di prima. Per cercare di capirci qualcosa di più, mi sto rileggendo i libri del femminismo storico.
E cosa le dicono oggi quei testi?
Sto rileggendo tutti i testi di Luisa Muraro. Consiglierei a tutte le donne di leggere L’ordine simbolico della madre. Il suo è un discorso molto bello e forte perché racconta la sua stessa esperienza, cosa che in genere i filosofi non fanno. Che poi questa è la grande lezione della politica delle donne: mettersi in gioco, partire da sé. Il salto è molto importante. Perché non si può parlare solo dell’altro, del padre, del patriarcato, senza ripartire da sé. Ridare significato simbolico alla madre significa poi darlo anche a se stessa. Questa secondo me è la cosa fondamentale che potrebbe anche aiutarci ad uscire dal vittimismo: ridare valore seriamente a se stesse, e non solo in una forma dichiarativa, razionale.
Quindi il lato che fa ombra è anche dalla parte delle donne stesse.
E’ importante dare valore a noi stesse e alle nostre simili. Non dobbiamo vergognarci di prendere la parola e parlare delle altre per le altre, e mi riferisco soprattutto alle sconosciute. Stare dalla parte delle altre, ma profondamente: questo è il punto. I maschi hanno una tendenza aggressiva, a tutti i livelli e, in questo non ci sono differenze di classe o di cultura. Questo è senz’altro vero, anche se non bisogna generalizzare. Ma è altrettanto vero che noi abbiamo una tendenza al vittimismo. E non sappiamo leggere i sintomi di violenza latenti nei maschi che incontriamo. Prima di arrivare all’omicidio, accadono molte altre cose che non sappiamo capire. E’ chiaro che è un’escalation di disprezzo.
Il disprezzo si può esprimere in tanti modi.
Si, ci sono modi ambigui, sotterranei, che si avvalgono anche della complicità delle vittime. E ci sono modi eclatanti. Penso alle minacce che ha ricevuto Laura Boldrini. Sono minacce sessiste, che raccolgono e raccontano un sentimento profondo di disprezzo. I fotomontaggi di donne seviziate, sgozzate, sodomizzate, con la sua faccia, che cosa sono? Un avversario politico uomo non riceverebbe mai questo tipo di minacce, mai si farebbe allusione al suo corpo da deturpare e violare.
A proposito di politici, dal presidente del Consiglio Enrico Letta in giù, la parola “femminicidio” viene all’improvviso ripetuta come una litania, un mantra, quasi a coprire il buco nero di cui stiamo parlando.
Si, diventa uno slogan. Certo, è sempre meglio che un politico intervenga a favore della dignità della donna che faccia finta di niente, però c’è sempre una vena di paternalismo in quei discorsi. Come il Papa, che piace a tutti, ma quando dice alle suore: diventate madri e non zitelle, che cosa vuol dire?  E’ la Chiesa che le vuole zitelle perché impedisce il matrimonio. E poi le vogliono anche madri!!!!  Allora, mi verrebbe da dire, come si diceva una volta: parlate di quello che vi compete, lasciate stare il discorso sulle donne. Siamo noi che dobbiamo prendere la parola. Non solo scrivendo sui giornali, intervenendo nei talk show, ma nella nostra vita. A tutti i livelli. Anche per strada, se assistiamo a un comportamento sessista, secondo me dovremmo intervenire. La mia vita, le mie scelte di ogni giorno e quelle delle mie simili, sono politica.
Quale è ”il posto delle donne”?
Non vorrei svelare il finale del romanzo a chi non l’ha ancora letto. Come sempre un titolo ha diversi significati. Ma è legato soprattutto a un’interdizione. Il posto in cui la ragazza viene uccisa (di sera in un parco vicino Belville è un posto in cui è proibito andare. Il ragionamento inconscio che sottende molti discorsi sulle donne e sulla violenza sulle donne è il seguente: in quel posto era proibito andare e quindi andandoci lei se l’è cercata. In questo tranello spesso cadono anche molte giornaliste donne che quando devono descrivere le vittime enfatizzano il  ritratto da ragazza perbene («non usciva mai di casa, non aveva amanti, aveva tutti nove a scuola»), come se una ragazza che fa una vita diversa meritasse invece di morire.
(pubblicata sul settimanale Gli Altri)

MERCOLEDÌ 1 MAGGIO 2013

Daniele Timpano: e caddi come corpo Mor(t)o cadde. La “liberazione” il 9 maggio

–> 

La cella è un po’ più lunga di tre metri e anche un po’ più larga di un metro. Quella originale era esattamente tre metri per uno, e tre metri per uno sono meno di uno sgabuzzino, meno di un corridoio, un po’ di più di una bara, un po’ meglio di un bagagliaio. Tre metri per uno sono «un’intercapedine, un pannello artificiosamente ricavato alzando un pannello di gesso tra due stanze». Questa nuova cella è sottoterra, a quindici metri sottoterra. Ci vive un tipo con gli occhiali neri. Non somiglia ad Aldo Moro, cioè fisicamente non gli somiglia, se non per via di una nuova magrezza con cui sta modellando il suo corpo, da quando si è messo in testa di entrare in transfert con Aldo Moro e di sparire dalla scena romana facendosi inondare dalle proprie stesse ossessioni. Dal 16 marzo il performer Daniele Timpano si è chiuso volontariamente in una cella ricostruita nel retropalco del Teatro dell’Orologio di Roma. Ci resterà fino al 9 maggio. Il 9 maggio del 1978 era stato ritrovato il cadavere di Aldo Moro a via Caetani. Dopo 54 giorni di prigionia. 54 e non 55. Ci tiene ad essere preciso, Timpano, perché su questi numeri c’è stata confusione. Per questo la performance live (che si può seguire in streamingwww.aldomorto54.it) si  intitola Aldo Morto_54.  Detta così, sembra spaventevole, la cosa, un’azione estetica di pessimo gusto. Come si fa a scherzare su Aldo Moro l’insepolto? Le reazioni di sconcerto, infatti, non si contano. Maria Fida Moro ha scritto una lettera al Corriere della Sera, sostenendo di non essere stata informata su tutta l’operazione Aldo Moro e decretando: «Non mi sembra che simili operazioni possano sublimare in nessun modo la verità». (Timpano le ha risposto ma la sua lettera non è stata pubblicata dal quotidiano milanese) Perché esiste un’ “operazione Aldo Moro”, insomma la storia è più lunga di così. Comincia nel 2011, da un primo studio un po’ oscuro che l’artista romano presenta al teatro India, lasciando tutti di stucco. Che si è messo in testa, Timpano, dove vuole andare a parare (questo era il sentimento collettivo del momento, anche fra chi lo conosceva e gli voleva bene)? Ma poi studiando e archiviando e provando e scrivendo, si era arrivati l’anno scorso allo spettacolo Aldo Morto, che invece sembrava una cosa fatta bene, anzi benissimo, uno spettacolo di un’ora e mezza che suonava quasi come un omaggio ad Aldo Moro, un testo sovraccarico di referti storici, testimonianze, citazioni, ma anche di annotazioni quasi tenere, quando si parlava del figlio che perde un padre, e della vedova e di tutte quelle lettere (novantasette) che Moro aveva scritto dalla prigione, insomma una cosa potente, visionaria, terribile, controversa certo, ma furiosa nella sua avanguardistica ritualità. Ora questo stesso spettacolo va in scena tutte le sere al Teatro dell’Orologio, quando alle ore 21 Daniele Timpano esce dalla sua cella artificiale e fa il suo one man show con tanto di Renault 4 rossa in miniatura, per ritornare subito dopo a dormire sulla brandina scomoda con la copertina grigia. Nella cella, c’è anche la stella rossa, però naturalmente non è la vera stella delle Br, è una lampada tutta illuminata e fosforescente.  Poi c’è un lavandino piccolo-piccolo. Daniele Timpano si è appena lavato i denti. Ci tiene lui a farsi trovare bello pulito, anche se la faccia è davvero stanca, emaciata. Poi nella cella ci sono i libri che legge Timpano per aggiornarsi continuamente con gli anni Settanta: Rosso totaledi Fabio Calenda, Corpo di Stato di Marco Baliani (che l’altra sera è andato in teatro),  Le polaroid di Moro di Sergio Bianchi e Raffaella Perna. Poi c’è Pinocchio, proprio quello di Collodi, che l’attore legge in streaming allo spettatore che vuole sintonizzarsi su quanto accade nella cella di Aldo Morto. Ma insomma, a lui, a Timpano, chi glielo fa fare di mandare all’aria la sua buona “reputazione”, perché va a parlare così impunemente con un morto che solo a nominarlo ci fa sentire male? Dopo aver toccato altri cadaveri eccellenti della nostra storia (Mussolini e Mazzini), attraverso cui raccontava a modo suo i miti di fondazione della storia italiana (Risorgimento, Resistenza), l’attore/regista che nel ‘78 aveva solo quattro anni  ha voluto mettersi in una posizione rischiosa, non innocente («Si sono anche io uno sciacallo»), ma pura negli intenti: “Siccome non te lo dice nessuno chi sei, me la sono andata a ricostruire da solo la mia identità di italiano. Nel 1978, mentre il mio Paese viveva questa tragedia, io guardavo i cartoni animati giapponesi (che sono oggetto di un altro mio spettacolo, Ecce robot). Oggi sono voluto entrare in questa cella e in questa storia con molto rispetto ma anche prendendomi direttamente la responsabilità di un lavoro su corpo. Tutto il resto è materiale immaginario e lo tratto proprio come tale: cos’è più vero, il volto di Aldo Moro dalla sua cella o la faccia di Volontè nel film di Petri? Per “immaginario” non intendo soltanto i film ma anche gli atti processuali perché con tutta la buona volontà non li posso considerare attendibili. Tant’è vero che ci sono stati cinque processi con esisti diversissimi. L’unica cosa reale in tutta questa storia è il corpo morto di Aldo Moro”.

Che il corpo del leader Dc, come tutti i cadaveri della storia. sia ilquid, il mistero originario e irredento, è cosa indiscutibile. Ce l’aveva dichiarato anche Valerio Morucci quando eravamo andati a intervistarlo e, parlando con tutta la prudenza, ma anche la rabbia e la delicatezza del caso, ci aveva raccontato quella sua ultima drammatica telefonata del 9 maggio 1978, assieme all’altra del 30 aprile di Mario Moretti: «In entrambi i casi, due minuti che ci eravamo dati non sono stati rispettati, ci siamo presi molto più tempo, indugiavamo.. Come Mario non voleva abbandonare la possibilità di salvare Moro, io non volevo abbandonare il suo cadavere. Come se continuare a parlare non mettesse la parola “fine”. Cioè la fine di quella telefonata ci sembrava la fine della storia».
Ed è proprio dal sentimento di fine della storia  che Daniele Timpano è partito per questa sua bulimica, sconcertante, chirurgica e pura passeggiata nelle viscere della nostra storia: «Si, un senso di stallo, che sicuramente è personale forse è generazionale… il senso di tramonto, di sconfitta, di mediocrità che mi circonda e mi pare di occludere l’orizzonte da qualunque scenario diverso che non sia alla fine multinazionali, banche mondiali, finanziarizzazione del mondo. Non vedo altro nel futuro. Tutti quelli che c’erano e mi raccontano gli anni Settanta mi dicono (te l’avrà detto lo stesso Morucci): “Immaginavano una cosa diversa e adesso è una merda”. Io non ho mai immaginato una cosa diversa. lo sono cresciuto nei peggiori anni della storia italiana. Ho sempre e solo immaginato questo Paese come una merda».
(Pubblicato sugli Altri)

VENERDÌ 29 MARZO 2013

Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo: ritratto di un combattente da giovane

–>
Ogni volta che incontriamo il mondo di Paolo Di Paolo, e Di Paolo stesso, ci ritorna tutto l’insano indicibile amore per il Novecento. E pensare che lui è nato alla fine del secolo scorso, nel 1983. Ma è proprio in virtù di questa sua età che dovrebbe essere poco più che acerba, e che invece acerba non è mai stata, che lo scrittore (e critico letterario) riesce a gettare una luce chiara, anomala, molto poco viziata dalla noia (sospettiamo che sia uno stato d’animo a lui sconosciuto), su certi paesaggi storici e vicende umane che comunemente si vanno  rottamando con allegria, abituati come siamo a far poltiglia di tutto per tentare di ingrandire noi stessi raccontando la nostra epica quotidiana in qualche stato di fb. Meno che minimali, confusi, opinionisti dell’ultimo secondo, ci siamo ridotti a non sentire nulla non solo di quello che resta ma di ciò che accade, pienamente, intensamente, accade. Parliamo qui del secolo scorso anche perché Paolo Di Paolo ha da poco lanciato una rivista letteraria Orlando, che dedica una pagina intera alle storiche riviste italiane, e nel primo numero si può rileggere l’audace vicenda di 900, la rivista fondata da Bontempelli nel 1926. Ed è proprio il 1926 l’anno che Paolo Di Paolo indaga nell’ultimo suo romanzo, Mandami tanta vita (Feltrinelli, pp.160, 13 euro), che si svolge tra Torino e Parigi, nei giorni in cui, a soli 24 anni, muore Piero Gobetti. Un romanzo storico e intimo, che si dipana attorno ad un doppio transfert. 

Per un verso c’è lui, Gobetti, un ragazzo potente che in pochi anni di vita fu capace di dire no alla retorica, alla tirannide, alla mediocrità, ai compromessi, ma che qui viene narrato nel momento del trapasso, con il corpo che ama e che muore.
E dall’altra c’è Moraldo, nella finzione letteraria uno studente torinese segnato dalla paura che per lui la vita non sia altro che questo: «ciò che non lascia traccia».
Moraldo vive del mito di Gobetti ma il loro incontro non avverrà secondo piani di logica comprensibile: si sfioreranno su una panchina di Parigi, in un incrocio doloroso di destini che si stende su una delle pagine più belle del libro: « (ndr. Moraldo) ragiona su quanto siano diverse, da vicino, le persone che abbiamo idealizzato. Le abbiamo astratte dalla realtà fino a farne i nostri feticci, i nostri fantasmi. Che ne è, per esempio, dell’aria spavalda che gli attribuiva? Che ne è della forza. Della sicurezza…Adesso, accanto a lui, l’oggetto della sua ammirazione, della sua invidia, del suo rancore sembra sperduto. Fragile al punto che da un momento all’altro potrebbe svanire, dissolversi, lasciando vuoto e inerte sulla panchina, come un guscio, il cappotto stesso».
Svanirà, Gobetti. Ma non svanirà con lui il segno che ha lasciato perché, come si dice in un’altra pagina del romanzo, «il segno non è che questo: essere se stessi dappertutto».
Il nome di Moraldo arriva dal mondo dei Vitelloni, è quel Fellini ragazzo che prende il treno da Rimini e arriva a Roma per violare un destino che sembrava scritto al vento di un litorale di precoci decadenze e che invece si compirà sotto tutta un’altra stella, sotto il cielo di una città gigantesca e labirintica che il regista “straniero” contribuì a inventare.
E mentre leggiamo di questo nuovo Moraldo e di questo inedito, vulnerabile Gobetti, vediamo anche il volto di Paolo Di Paolo, quella serenità del combattente che non ama la lamentazione e preferisce lottare per lasciare anche lui il proprio segno. Ma, a differenza di molti suoi coetanei languidamente affezionati ad un orfanismo solo dichiarato, per essere completamente se stesso Di Paolo ha sempre sentito il bisogno di dialogare: con i personaggi del Novecento, i vivi e i morti. Una inclinazione costruttiva che nella preparazione di questa solidissima, matura, a tratti struggente, opera, trova il suo più chiaro compimento: «Mi porto dietro l’idea di questo romanzo dal 2008: stavo per compiere gli anni che Piero Gobetti (1901-1926) non ha compiuto. Non sapevo molto di lui, ma quel poco mi ha spinto a immaginare. Nel gennaio del 2009, a Parigi, sono andato al cimitero del Père-Lachaise in cerca della sua tomba. Era – accade di rado – chiuso per ghiaccio e neve. Antonio Tabucchi, che avrei incontrato quello stesso pomeriggio, mi incoraggiò a non abbandonare questa storia…Per la scrittura, invece hanno contato molto due fotografie torinesi. La prima porta la data del 15 febbraio 1926. Si vede un banco di vini, è una fiera di carnevale. È il giorno in cui, lontano dalla sua città, a Parigi, muore Gobetti. L’altra l’ho scattata io stesso: al numero 52 di corso San Maurizio, la casa in cui abitò Giacomo Debenedetti. Le lunghe conversazioni con il figlio Antonio, che in La fine di un addio e in Giacomino ha fatto rivivere il clima degli anni Venti e Trenta a Torino, mi hanno aiutato a indagare in quelle giovinezze prodigiose» scrive Di Paolo nella postfazione di Mandami tanta vita.
La documentazione storica viene assorbita nella narrazione come se non ci fosse rottura né baratro tra le due sfere, pubbliche e private, realistica e immaginaria. Anche se la luce che fa l’una aiuta l’ombra dell’altra a tradirsi e rivendicare il suo diritto ad essere, la sua inequivocabile bellezza di ombra che fa, appunto, luce.
Ma come riesce un’ombra a fare così tanta luce? Se c’è un segreto nella scrittura e nella vita intellettuale di Paolo Di Paolo, a noi sembra che questa sua qualità si stagli nella sfera dell’esattezza, in un cortocircuito tra zone inconsce e attività consce. Non c’è mai approssimazione nel suo modo di operare. Come rivela questo dettaglio fornito dallo stesso autore: «Ad un certo punto, sentivo il bisogno di Moraldo camminasse per Torino sotto la pioggia.  Il romanzo si ambienta nei freddi giorni di febbraio del 1926. Era probabile che piovesse. Probabile, ma non certo.  Mi sono fermato. Poi, sfogliando i giornali dell’epoca, ho trovato un riferimento alla pioggia che a dirotto aveva funestato quei giorni di Carnevale del 1926. Così ho finito di scrivere serenamente la mia scena».
(pubblicato sul settimanale “Gli Altri”)

SABATO 9 MARZO 2013

Elogio delle pietose bugie

–> 

Ci inventiamo vite fittizie con il desiderio di essere accettati. Gonfiamo il curriculum per fare bella figura. Ci creiamo arabesche specializzazioni fatte “altrove”, tanto chi lo conosce l’altrove, chi ci è mai andato a fare un giro oltre questa nostra Italietta malata e arrogante? Il caso Giannino ci porta a riflettere sulla via “italiana” che prende la bugia. Un collega forse invidioso (Zingales)  ci fa sapere dagli Stati Uniti che l’ex amico (Giannino), candidato alla direzione di Fermare il declino, aveva mentito in merito ad un master in economia conseguito a Chicago. Che poi, diciamola tutta, non ci sarebbe niente da invidiare a chi avrebbe preso lezioni da quei deliranti pescecani (su cui, per dovere di cronista teatrale, segnaliamo Chicago’s boys, un acuto lavoro di Renato Sarti ispirato a Shock economy di Naomi Klein, che mostra un prototipo di criminale dell’alta finanza annegare in una paludosa vasca da bagno, dopo aver inferito contro una donna ridotta a serva). Insomma, Oscar Giannino a Chicago non c’è mai stato e così scoppia lo scandalo, con tanto di lacrime e sangue e minacce di dimissioni. In questo caso, la pubblica gogna ha funzionato. Ma da noi non si sa mai che giri farà la roulette. Uno la fa franca e l’altro invece — “colpevole” dello stesso “misfatto” — viene impalato in piazza con tanto di sghignazzate degli spettatori paganti, sollevati dal fatto di non essere stati scoperti loro nell’atto di mentire. L’unica legge che vale, lo diceva placidamente, tragicamente Woody Allen in “Match Point”, è la legge del caos, più che quella del caso. Rimane da ragionare sul perché ci sia sempre bisogno di far vergognare qualcuno. Che c’è di bello nell’esposizione delle lacrime di un signore che ammette di aver gonfiato il proprio curriculum? Niente c’è di bello. Mentre c’è molto di patetico, dove l’aggettivo non ha più niente del sostantivo che l’ha generato, il compianto pathos. Il patetico va invece simpaticamente a braccetto col ridicolo. Per via delle sue dimensioni piccole-piccole. Nella menzogna fatta bene e sostenuta ad arte, invece, ci sarebbe del grandioso. Il grandioso del comico, quello alto e feroce, innestato su un meccanismo di critica sociale, che è stato rappresentato così bene da I soliti ignoti e da altri capolavori del genere. Totò era il principe della truffa, il grande imbroglione lunare, ma i nostri intellettuali (tranne poche eccezioni) l’hanno sempre trattato con sufficienza. Per mancanza di immaginazione.
Eppure, la bugia ha tradizioni nobili. Pensiamo alla dimensione quasi metafisica del Bugiardo di Goldoni, che alla fine viene lasciato solo, anche se lui ce la mette tutta per dimostrare alla consorteria dei mediocri che i suoi non sono miseri sotterfugi ma «spiritose invenzioni».
E quanta dinamite creativa c’è in Pinocchio? Infinita. A tal punto che neanche il suo autore se ne accorse, come sosteneva quel genio di Carmelo Bene, quando asseriva che Collodi non aveva capito un cavolo di Pinocchio. E per dimostrarlo, realizzò fantastiche variazioni sulla figura archetipica del burattino/bambino, incatenandosi ad un banco di scuola, simbolo di ogni supplizio a venire.
Perché è nell’aula scolastica che va in scena il primo teatro della mortificazione, è lì che si decide tutto, se da grande sarai un essere amato (e premiato) oppure un piccolo ladro di attenzioni (e lodi) che al fondo di te ritieni non meritate. Ed è per questo che i bugiardi in genere partono sempre da lì, dal curriculum scolastico. Abbiamo imparato presto che se saremo obbedienti e bravi, se sapremo dire la poesia a memoria, allora sì che saremo rispettati. In caso contrario saremo sculacciati e bacchettati.
Ma l’autorevolezza non dovrebbe passare dall’esibizione delle tante cose che ci siamo ficcate in testa. Anche perché, se proprio siamo costretti a parlare di filastrocche imparate, la poesia saremmo meglio farla che impararla, e per poesia intendiamo anche una certa possibilità che ci è sempre data  —  da qualunque buco del mondo veniamo e qualunque scuola o non-scuola abbiamo frequentato  — di fare della nostra vita una piccola opera d’arte. E la storia universale è piena di biografie di grandi personaggi che vantano alla fine un bel fallimento scolastico, una precoce caduta che verrà poi interpretata come l’unica grande fortuna della vita.
Rispetto al modello punitivo scolastico, il Lelio di Goldoni o il Pinocchio di Carmelo Bene o il Totò principe della italiana patafisica, rappresentano dei modelli di anarchia felice. Ma noi non lo capiamo perché i cattivi maestri ci hanno insegnato a leggere solo il bignami della storia, per cui alla fine Lelio resta solo, a Pinocchio crescono naso e orecchie da asino, e i personaggi di Totò fanno ridere per il loro assurdo che non ci riguarda. Non siamo allenati, invece, a starcene dalle parti di quelle “spiritose invenzioni”, a carpire la natura sulfurea, ribelle, esplosiva, del personaggio di Goldoni. Come ci è difficile immaginare che Pinocchio dovesse essere amato proprio perché aveva in odio la scuola e in simpatia il paese dei balocchi, e  perché manifestava un rapporto di sana ambivalenza (e non di sola obbedienza)  rispetto alle figure genitoriali, Geppetto sì, ma soprattutto l’angosciante fatina turchina, che non perdeva occasione di terrorizzarlo con le sue apparizioni/sparizioni nei panni della madre-sorella morta.
Dire bugie, come faceva Pinocchio, è alla fine un modo per evadere dai perimetri mostruosi del sistema scuola-famiglia, è una pura una strategia di sopravvivenza.
Non vogliamo ovviamente qui affermare che tutti i bugiardi sono dei grandi artisti, specialmente in un Paese come il nostro che mostra una tolleranza della menzogna legata al dominio maschile. Ma c’è menzogna e menzogna. Alcune bugie, come recita il titolo di un bel libro di Irene Dische, possono anche essere pietose. Pietose bugie. E non patetiche. Ma pietose, cioè cariche di pietà. Perché si può essere coscienti di non avercela sempre fatta, di non essere stati bravi ogni volta, e al tempo stesso pensare che non per questo saremo meno amati, e rispettati. Se arriveremo a fare questo ragionamento su di noi, non ci dovrebbe essere difficile farlo anche sull’altro; altrimenti, parliamoci chiaro, che ci siamo andati a fare a scuola, che ci è servito leggere e scrivere e fare master in America? Per redarre un curriculum da mandare a qualche Chicago boy in salsa pecoreccia? Se non è così, di fronte ad una menzogna che non ha l’aspetto di un crimine, magari ci faremo una bella risata, ma non ci verrà mai voglia di impiccare il bugiardo sulla pubblica piazza, senza che questo pensiero ci rimandi automaticamente all’immagine del nostro povero collo appeso all’ultimo laccio.
(pubblicato su Gli Altri)

MERCOLEDÌ 27 FEBBRAIO 2013

Anna Bonaiuto, l’antidiva

–> 

Della sua vita privata sappiamo poco, e non ama parlarne. Nel passato, le cronache hanno restituito il suo lungo menage con Mario Martone, e poi fine delle trasmissioni. Quando la incontri a teatro, sembra quasi austera. A lei, d’altro canto, come confessa in questa intervista, non è mai piaciuta questa cosa di “baci e bacetti” alle prime. Ma fuori dalla scena è sorridente, gentile, generosa, con una chiara capacità di rimettere continuamente radici in se stessa. Un’antidiva, Anna Bonaiuto, attrice di percorsi sempre autoriali, che al teatro e al cinema, ogni volta, porta una sfumatura nuova, che va a pescare in un baule nascosto della memoria emotiva sempre vigilato dall’intelligenza. In tournèe con La belle joyeuse di Gianfranco Fiore (anche regista), personaggio di un anticonformismo quasi romanzesco che fece in una sola vita quello che gli uomini fanno in sette otto vite. E’ un capogiro ascoltare le sue gesta, a partire però da lei, da Anna, che ora è seduta in un caffè di Trastevere e parla di tutto: la fuga da un padre padrone, la stordente Roma degli anni Settanta, la Roma che non riconosce, la politica, il papa, quello che resta, quello che si è e che ovviamente non si può dire mai del tutto.
Che idea si è fatta di Cristina di Belgioioso?
Dopo averla interpretata in Noi credevamo, il film di  Mario Martone,  sono rimasta affascinata dal personaggio, così mi sono messa a leggere tutto su di lei, e mi sono chiesta: come mai questa donna meravigliosa non viene ricordata? Perché si ricorda sempre e soltanto Anita Garibaldi? Perché Anita Garibaldi era moglie. Invece Cristina di Belgioioso era una donna completamente fuori dalle regole. Una donna trasgressiva, gran fumatrice d’oppio, una che ha lottato con dei terroristi, una che ha scritto lettere al papa al quale pretendeva di insegnare il vero senso della religione cattolica, una che chiamava Mazzini “Quel minchione!”
Da dove veniva questa sua irregolarità?
Nasce da una famiglia anti-austriaca, libertaria, cospiratrice, e ricchissima (l’humus culturale milanese illuminista rappresentato da Cesare Beccaria). Si innamora del principe di Belgioioso, un uomo spiantato ma bellissimo e patriota. Lo sposa. Va in giro con la pistola nelle giarrettiere. Finché il marito che era un libertino le regala la sifilide a vent’anni…Da lì comincia una vita ferita nell’anima e nel corpo e queste ferite la portano ad un’azione esasperata per cui comincia a fare la carbonara…Gli austriaci le confiscano i beni. Lei scappa in Francia e va a vivere in un sottotetto. Gioca la carta della povera principessa e Parigi a quel punto è a suoi piedi.
Parigi capitale del XIX secolo, come la definì Walter Benjamin….
Già, la Parigi dei poeti, dei rivoltosi e delle donne seducenti come Cristina che a Parigi accoglie i clandestini, dà i soldi ai terroristi, viene ammirata da tutti… Heine, Delacroixe, tutti impazziscono per Cristina di Belgioioso. Truccata di bianco, con gli occhi neri, coraggiosa e libera: è la prima femme fatale della storia moderna…Poi spunta una figlia con la quale torna nelle sue terre. E lì comincia a guardare i contadini che non aveva mai guardato. E si preoccupa soprattutto dei loro figli. Mette in atto le idee di Proudhon e Saint Simon. Crea i falansteri, le nursery, si inventa operazioni (non realizzate) di microcredito per i figli dei contadini…Organizza una spedizione di volontari napoletani che imbarca su una nave e li porta a Milano a sparare nelle cinque giornate di Milano. A Roma mette su dodici ospedali. Goffredo Mameli muore tra le sue braccia mentre lei gli canta “Fratelli d’Italia” nell’orecchio…Vive in Anatolia sette anni. Un suo servo l’accoltella. Lei si cuce da sola le ferite…
Come muore una donna così? Non mi dica di vecchiaia.
E invece sì. Muore nel 1871 a 63 anni di lento spegnimento.
Nessuno che l’abbia ricordata nei festeggiamemti dell’unità d’Italia. Perché?
Con queste caratteristiche, non poteva diventare un simbolo…Era il contrario della mamma moglie ricamatrice fedele…E pensare che lei aveva terrore non della morte  ma dell’oblio. Temeva che sarebbe stata ricordata al massimo come una principessa epilettica, drogata femme fatale, e non come la gran donna che è stata.  Diceva: spero che le donne un giorno si accorgano di quello che ho fatto per loro e che possano vivere quella felicità che io ho solo sognato…
Come attrice appassiona ad una figura di donna plateale, teatralissima. Ma lei, Anna, sembra tutto il contrario: defilata, molto poco eccentrica persino nel vestire, per alcuni persino scontrosa…
Diciamo che io tendo proprio a sparire. E’ carattere. Ma è anche una scelta precisa rispetto all’essere attore. Che cosa dovrebbe raccontare un attore se non qualcosa che lo tormenta al fondo di sé? Tutto il resto si chiama esibizione. L’essere attore è essere più vicini a Dio di tante altre cose.
Lei è d’origine friuliana.
Si ma di padre napoletano, che mi picchiava (non perché fosse napoletano).
Suo padre la picchiava?
Mi frustava. Non potevo dire neanche la parola attrice, figuriamoci farla. Mi ha cacciato di casa e sono venuta a fare tre anni la fame a Roma. Campavo con le 60.000 lire della borsa di studio che mi dava l’Accademia d’Arte Drammatica. Mi ero proibito tutto: non potevo tornare a casa, non potevo vedere le mie sorelle…
Adesso come ricorda quegli anni?
Esci da una famiglia con quattro sorelle a tavola, il caminetto, il paese, la protezione, e ti ritrovi a Roma che non sai neanche come si fa a prendere il tram, non conosci nessuno…Sono gli anni del dolore perché ti chiedi cosa stai facendo di male. Ma sono anche gli anni belli della ribellione, della conoscenza, gli anni in cui non vivi più con un padre che ti obbliga a tornare a casa prima di cena. Sono i meravigliosi anni Settanta in cui una sera vedevi Carmelo Bene una sera Eduardo un’altra sera Gassman. Mondo sparito.
E quando conobbe Mario Martone?
Molti anni dopo. Siamo stati insieme dieci anni. E devo dire che è stata una grande storia d’amore. Morte di un matematico napoletanoL’amore molestoTeatri di guerra non perché c’ero io, ma sono convinta che rimangono le cose più belle che ha fatto. Tra di noi c’era uno scambio intellettuale ed emotivo gigantesco, quindi un po’ mi sento anche autrice di queste sue opere.
Lei è tra le poche grandi attrici di teatro ad aver avuto una presenza stabile anche al cinema, dalla Cavani e Sorrentino…
Prima di aver conosciuto Mario, avevo già vinto una coppa Volpi con la Cavani e una Grolla d’Oro con Pupi Avati. Poi, è chiaro, l’incontro con Martone ha definito i contorni con più ricchezza.
Come si sente su un set? Non ha qualcosa di alienante?
Si, ce l’ha. In palcoscenico sei completamente responsabile dell’evento. O ci sei o non ci sei. Se sbagli, sbagli tu. Invece al cinema sei nelle mani di un altro. Puoi anche pensare di fare una pausa di recitazione, ma il novanta per cento delle volte quella paura verrà tagliata..Però un attore è un attore e il suo ruolo è sempre lo stesso: partire dalla realtà e modificarla, far capire cosa ti passa per la pancia, per il cuore. Ma per fare teatro oggi, bisogna essere un po’ eroi. Anche il pubblico è disorientato, perché vede l’attore di fiction fare Strindberg…
Cosa rappresenta Roma per lei?
Io ho potuto vivere la fine della bellezza: le cene in trattoria e parlare d’arte fino a notte, donne meravigliose che camminavano scalze a piazza Navona, i sogni, l’allegria. Dopo gli anni Settanta è cominciata la barbarie, ma non solo a Roma, in tutto il Paese.  E’ diventata una città molto diversa.
Vivrebbe mai fuori dalla città?
Non credo, la città mi inebria. Però i desideri cambiano con le età della vita. Saresti ridicolo a fare a quarant’anni le stesse cose che facevi a trenta, e a sessanta quello che facevi a quaranta…
Le donne comunque rimangono più ragazze degli uomini, non è così?
Su questo non c’è dubbio. Alcuni uomini della mia età sono certi mortaccini..
E’ vero che è una lettrice accanita?
Mi piace molto leggere. Però l’ultimo libro che ho letto l’ho trovato veramente irritante. Limonov di Carrère.
Perché?
Diciamola tutta: se avessi questo tra le mani, lo strangolerei. E’ un erede da quattro soldi dei Demoni di Dostoevskij.
Limonov o Carrère?
Limonov.  Un nazista stalinista, che mette insieme l’orrore. Non si può collegare al nichilismo russo, non c’è niente di quel misticismo.
E l’autore?
L’autore è un furbacchione. Non posso dire però che il libro non sia interessante. Parla della Russia, della sua storia sbilenca, del fatto che non c’è mai stata una democrazia.
Cosa voterà?
Vendola.  Da una parte abbiamo un banchiere, dall’altra di un personaggio a cui non so più che nome dare che si inventa questa oscenità dell’Imu, poi c’è Grillo che sta aumentando in maniera preoccupante…Beh, di fronte a queste minacce  io voto Vendola. Bisogna far vincere per forza la sinistra in questo momento.
E di Rivoluzione civile cosa pensa?
Non nego che Ingroia sia una persona perbene ma dare il voto a lui adesso mi sembrerebbe una dispersione.
Come ha letto il ritiro di Ratzinger?
L’impressione è che non volesse fare la stessa fine di Woytila, che è stato vittima della Curia fino all’ultimo momento. In quel caso hanno voluto tenere in piedi un cadavere con un accanimento disumano, e politico. Ratzinger si è sottratto a tutto questo. E poi non ha retto all’idea di fronteggiare i problemi giganteschi che deve affrontare la Chiesa in questo momento: problemi di secolarizzazione, di scandali sessuali, di banche, di Ior…E con tutto questo continuano a dire: non mettete il preservativo altrimenti non vi diamo la comunione! …Sono fuori dalla Storia! Sono destinati a finire. Quindi io credo alla sua debolezza umana, però ci sono pure delle storiacce dietro. Comunque, quando mai la Chiesa ha avuto una storia pulita? Non ci dimentichiamo che noi avevamo la banda della Magliana dentro la chiesa (la chiesa di oggi,  non quella di Bonifacio VIII).
Per la regia di Valeria Patera, lei sta interpretando una Rita Levi Montalcini più segreta. Cosa la affascina della sua figura?
Rita Levi Montalcini aveva una forza e una passione fuori dal comune. D’altro canto, le cose si ottengono solo con la costanza della passione. E poi in lei c’era la bellezza del voler trasmettere le sue conoscenze. In questo era anche molto femminile.
Si, era femminile.
Aveva una grazia tutta sua: quegli occhi chiari sorridenti, quel suo modo gentile di essere ironica…
Sempre a Radio 3, aveva letto qualche tempo prima delle pagine di Elsa Morante…
Il diario è la cosa meno nota di lei. Io sono pazza di Elsa Morante, ho letto tutto. Penso che Menzogna e sortilegio sia tra le cose più belle che siano mai state scritte… Una ragazzetta che scrive un romanzo dell’Ottocento, con lo stesso respiro di un romanzo sparito! Certo poteva sembrare anche irritante, antipatica. Ma non bisogna essere per forza simpatiche no?
Lei però, Anna, è simpatica, anche se non vorrebbe farlo vedere.
Posso sembrare scostante. Questo è troppo un mondo di baci bacetti….Ci sono delle volte che semplicemente non voglio salutare….Poi sono permalosa.. Però, sì, non penso di essere antipatica.
(Pubblicato su “Gli Altri”)

DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013

Digerseltz: mangiare o essere mangiati?

–>
Un corpo esile che oscilla, attraversato dalle correnti interne e dagli strattoni che arrivano dal mondo. Apre la bocca. La chiude. La riapre. Parla, mangia, divora, rifiuta il cibo, è masticata viva. Per resistere, gioca. Bambole, piccoli frigoriferi, parrucche, borsette, le statuine del presepe. Con gli oggetti, crea un perimetro di umane cose. Ricorda, col corpo. Senza rabbia, ricorda. Con dolcezza. E si offre in pasto. Con una grazia tutta sua, senza intimidire. Lei sì, è intimidita. Ma anche coraggiosa, nonostante quella sua fisicità aerea. Non si farà male? La vedi indifesa, magra, con quei tacchi altissimi, spaesata di fronte al pubblico, ma anche accogliente, e ti chiedi se si farà male. No, non si far male, ma è molto probabile che ci farà male. Perché quello che dice non è indifferente. Non è una cosa qualunque. Elvira Frosini, autrice regista e interprete di Digerseltz, va a toccare la soglia fisica che delimita il punto di straripamento del dentro nel fuori e la violazione da fuori dello spazio interno. Come il personaggio di Bocca in Non Io di Samuel Beckett (a cui non fa volontario riferimento), la figura inventata e agita da Frosini è una “piccola minuscola bambina” imprigionata in “questa dannazione di buco”. Ma in questo caso non vediamo solo il dettaglio della bocca (come voleva Beckett), ma la bambina/donna tutta intera, presa dentro questo tormento del dire: dire il discorso che ci parla, esprimere il desiderio ondivago, nominare l’eccedenza, quello spreco batailliano che ci permette l’invasione del comico dentro la tragedia del vivere così come si è: gettati in un corpo che sarà sempre troppo piccolo per contenere tutto questo traffico di pulsioni e ombre che aprono e chiudono porte. La bocca come apertura verso gli inferi e soglia attraverso cui ci si mostra al mondo. La bocca come varco potente di sessualità. La bocca che parla e dovrebbe dire solo quello che vorrebbero che noi dicessimo, ma poi l’inconscio regala un bel lapsus e tutto va in frantumi. La bocca che prende quel cibo che finirà col renderci non attrattivi. Il cibo che ci ammala. La società che ci giudica. Noi che ci giudichiamo. Noi che diventiamo anoressici e bulimici in una carneficina privata. Nella performance di Elvira Frosini, c’è un mondo. E vale la pena andarlo a v

Iscriviti a: Post (Atom)

INFORMAZIONI PERSONALI

Giornalista e scrittrice, vive a Roma. Ha lavorato per vari giornali italiani, tra cui “L’Unità” “Rinascita”, Liberazione”. Attualmente scrive di politica e cultura per il settimanale “Gli Altri”. Firma la rubrica “Visioni” per “Nuova Ecologia”. Per l’Ente Teatrale Italiano ha diretto i periodici “La Critica” e “Etinforma”. E’ autrice di una serie di documentari che raccontano i grandi attori del cinema italiano (Anna Magnani, Ugo Tognazzi, Totò), trasmessi tutti su Sy Cinema. Nel marzo 2008 è uscito il suo primo romanzo, “Nell’ora che è d’oro”, ambientato a New York. Con Editoria e Spettacolo ha pubblicato: “Le voci di Santiago”, “Io sono un’attrice –I teatri di Roberto Latini” (aprile 2009) e “Amleto a Gerusalemme”, reportage dalla Palestina (novembre 2009). Alla fine del 2009 crea un’alleanza artistica con Cinzia Villari: scelgono come nome “Le Onde”, dal romanzo di Virginia Woolf. Le due scrittrici stanno lavorando ad una trilogia teatrale sul Giappone contemporaneo: il primo movimento, già in corso d’opera, si intitola “Doll is Mine”. E’ socia fondatrice dell’associazione “Filomena, la rete delle donne”.

ARCHIVIO BLOG

 

Condividi
Questa voce è stata pubblicata in GENERALE. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *