MERCOLEDÌ 19 GIUGNO 2013
Massimo Carlotto parla delle sue “Vendicatrici”: “Alle donne il compito di riaprire il conflitto”
GIOVEDÌ 23 MAGGIO 2013
Rossana Campo, il posto delle donne
MERCOLEDÌ 1 MAGGIO 2013
Daniele Timpano: e caddi come corpo Mor(t)o cadde. La “liberazione” il 9 maggio
La cella è un po’ più lunga di tre metri e anche un po’ più larga di un metro. Quella originale era esattamente tre metri per uno, e tre metri per uno sono meno di uno sgabuzzino, meno di un corridoio, un po’ di più di una bara, un po’ meglio di un bagagliaio. Tre metri per uno sono «un’intercapedine, un pannello artificiosamente ricavato alzando un pannello di gesso tra due stanze». Questa nuova cella è sottoterra, a quindici metri sottoterra. Ci vive un tipo con gli occhiali neri. Non somiglia ad Aldo Moro, cioè fisicamente non gli somiglia, se non per via di una nuova magrezza con cui sta modellando il suo corpo, da quando si è messo in testa di entrare in transfert con Aldo Moro e di sparire dalla scena romana facendosi inondare dalle proprie stesse ossessioni. Dal 16 marzo il performer Daniele Timpano si è chiuso volontariamente in una cella ricostruita nel retropalco del Teatro dell’Orologio di Roma. Ci resterà fino al 9 maggio. Il 9 maggio del 1978 era stato ritrovato il cadavere di Aldo Moro a via Caetani. Dopo 54 giorni di prigionia. 54 e non 55. Ci tiene ad essere preciso, Timpano, perché su questi numeri c’è stata confusione. Per questo la performance live (che si può seguire in streamingwww.aldomorto54.it) si intitola Aldo Morto_54. Detta così, sembra spaventevole, la cosa, un’azione estetica di pessimo gusto. Come si fa a scherzare su Aldo Moro l’insepolto? Le reazioni di sconcerto, infatti, non si contano. Maria Fida Moro ha scritto una lettera al Corriere della Sera, sostenendo di non essere stata informata su tutta l’operazione Aldo Moro e decretando: «Non mi sembra che simili operazioni possano sublimare in nessun modo la verità». (Timpano le ha risposto ma la sua lettera non è stata pubblicata dal quotidiano milanese) Perché esiste un’ “operazione Aldo Moro”, insomma la storia è più lunga di così. Comincia nel 2011, da un primo studio un po’ oscuro che l’artista romano presenta al teatro India, lasciando tutti di stucco. Che si è messo in testa, Timpano, dove vuole andare a parare (questo era il sentimento collettivo del momento, anche fra chi lo conosceva e gli voleva bene)? Ma poi studiando e archiviando e provando e scrivendo, si era arrivati l’anno scorso allo spettacolo Aldo Morto, che invece sembrava una cosa fatta bene, anzi benissimo, uno spettacolo di un’ora e mezza che suonava quasi come un omaggio ad Aldo Moro, un testo sovraccarico di referti storici, testimonianze, citazioni, ma anche di annotazioni quasi tenere, quando si parlava del figlio che perde un padre, e della vedova e di tutte quelle lettere (novantasette) che Moro aveva scritto dalla prigione, insomma una cosa potente, visionaria, terribile, controversa certo, ma furiosa nella sua avanguardistica ritualità. Ora questo stesso spettacolo va in scena tutte le sere al Teatro dell’Orologio, quando alle ore 21 Daniele Timpano esce dalla sua cella artificiale e fa il suo one man show con tanto di Renault 4 rossa in miniatura, per ritornare subito dopo a dormire sulla brandina scomoda con la copertina grigia. Nella cella, c’è anche la stella rossa, però naturalmente non è la vera stella delle Br, è una lampada tutta illuminata e fosforescente. Poi c’è un lavandino piccolo-piccolo. Daniele Timpano si è appena lavato i denti. Ci tiene lui a farsi trovare bello pulito, anche se la faccia è davvero stanca, emaciata. Poi nella cella ci sono i libri che legge Timpano per aggiornarsi continuamente con gli anni Settanta: Rosso totaledi Fabio Calenda, Corpo di Stato di Marco Baliani (che l’altra sera è andato in teatro), Le polaroid di Moro di Sergio Bianchi e Raffaella Perna. Poi c’è Pinocchio, proprio quello di Collodi, che l’attore legge in streaming allo spettatore che vuole sintonizzarsi su quanto accade nella cella di Aldo Morto. Ma insomma, a lui, a Timpano, chi glielo fa fare di mandare all’aria la sua buona “reputazione”, perché va a parlare così impunemente con un morto che solo a nominarlo ci fa sentire male? Dopo aver toccato altri cadaveri eccellenti della nostra storia (Mussolini e Mazzini), attraverso cui raccontava a modo suo i miti di fondazione della storia italiana (Risorgimento, Resistenza), l’attore/regista che nel ‘78 aveva solo quattro anni ha voluto mettersi in una posizione rischiosa, non innocente («Si sono anche io uno sciacallo»), ma pura negli intenti: “Siccome non te lo dice nessuno chi sei, me la sono andata a ricostruire da solo la mia identità di italiano. Nel 1978, mentre il mio Paese viveva questa tragedia, io guardavo i cartoni animati giapponesi (che sono oggetto di un altro mio spettacolo, Ecce robot). Oggi sono voluto entrare in questa cella e in questa storia con molto rispetto ma anche prendendomi direttamente la responsabilità di un lavoro su corpo. Tutto il resto è materiale immaginario e lo tratto proprio come tale: cos’è più vero, il volto di Aldo Moro dalla sua cella o la faccia di Volontè nel film di Petri? Per “immaginario” non intendo soltanto i film ma anche gli atti processuali perché con tutta la buona volontà non li posso considerare attendibili. Tant’è vero che ci sono stati cinque processi con esisti diversissimi. L’unica cosa reale in tutta questa storia è il corpo morto di Aldo Moro”.
VENERDÌ 29 MARZO 2013
Il nuovo romanzo di Paolo Di Paolo: ritratto di un combattente da giovane
Ogni volta che incontriamo il mondo di Paolo Di Paolo, e Di Paolo stesso, ci ritorna tutto l’insano indicibile amore per il Novecento. E pensare che lui è nato alla fine del secolo scorso, nel 1983. Ma è proprio in virtù di questa sua età che dovrebbe essere poco più che acerba, e che invece acerba non è mai stata, che lo scrittore (e critico letterario) riesce a gettare una luce chiara, anomala, molto poco viziata dalla noia (sospettiamo che sia uno stato d’animo a lui sconosciuto), su certi paesaggi storici e vicende umane che comunemente si vanno rottamando con allegria, abituati come siamo a far poltiglia di tutto per tentare di ingrandire noi stessi raccontando la nostra epica quotidiana in qualche stato di fb. Meno che minimali, confusi, opinionisti dell’ultimo secondo, ci siamo ridotti a non sentire nulla non solo di quello che resta ma di ciò che accade, pienamente, intensamente, accade. Parliamo qui del secolo scorso anche perché Paolo Di Paolo ha da poco lanciato una rivista letteraria Orlando, che dedica una pagina intera alle storiche riviste italiane, e nel primo numero si può rileggere l’audace vicenda di 900, la rivista fondata da Bontempelli nel 1926. Ed è proprio il 1926 l’anno che Paolo Di Paolo indaga nell’ultimo suo romanzo, Mandami tanta vita (Feltrinelli, pp.160, 13 euro), che si svolge tra Torino e Parigi, nei giorni in cui, a soli 24 anni, muore Piero Gobetti. Un romanzo storico e intimo, che si dipana attorno ad un doppio transfert.
Moraldo vive del mito di Gobetti ma il loro incontro non avverrà secondo piani di logica comprensibile: si sfioreranno su una panchina di Parigi, in un incrocio doloroso di destini che si stende su una delle pagine più belle del libro: « (ndr. Moraldo) ragiona su quanto siano diverse, da vicino, le persone che abbiamo idealizzato. Le abbiamo astratte dalla realtà fino a farne i nostri feticci, i nostri fantasmi. Che ne è, per esempio, dell’aria spavalda che gli attribuiva? Che ne è della forza. Della sicurezza…Adesso, accanto a lui, l’oggetto della sua ammirazione, della sua invidia, del suo rancore sembra sperduto. Fragile al punto che da un momento all’altro potrebbe svanire, dissolversi, lasciando vuoto e inerte sulla panchina, come un guscio, il cappotto stesso».
Ma come riesce un’ombra a fare così tanta luce? Se c’è un segreto nella scrittura e nella vita intellettuale di Paolo Di Paolo, a noi sembra che questa sua qualità si stagli nella sfera dell’esattezza, in un cortocircuito tra zone inconsce e attività consce. Non c’è mai approssimazione nel suo modo di operare. Come rivela questo dettaglio fornito dallo stesso autore: «Ad un certo punto, sentivo il bisogno di Moraldo camminasse per Torino sotto la pioggia. Il romanzo si ambienta nei freddi giorni di febbraio del 1926. Era probabile che piovesse. Probabile, ma non certo. Mi sono fermato. Poi, sfogliando i giornali dell’epoca, ho trovato un riferimento alla pioggia che a dirotto aveva funestato quei giorni di Carnevale del 1926. Così ho finito di scrivere serenamente la mia scena».
SABATO 9 MARZO 2013
Elogio delle pietose bugie
(pubblicato su Gli Altri)
MERCOLEDÌ 27 FEBBRAIO 2013
Anna Bonaiuto, l’antidiva
(Pubblicato su “Gli Altri”)
DOMENICA 3 FEBBRAIO 2013
Digerseltz: mangiare o essere mangiati?
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Un corpo esile che oscilla, attraversato dalle correnti interne e dagli strattoni che arrivano dal mondo. Apre la bocca. La chiude. La riapre. Parla, mangia, divora, rifiuta il cibo, è masticata viva. Per resistere, gioca. Bambole, piccoli frigoriferi, parrucche, borsette, le statuine del presepe. Con gli oggetti, crea un perimetro di umane cose. Ricorda, col corpo. Senza rabbia, ricorda. Con dolcezza. E si offre in pasto. Con una grazia tutta sua, senza intimidire. Lei sì, è intimidita. Ma anche coraggiosa, nonostante quella sua fisicità aerea. Non si farà male? La vedi indifesa, magra, con quei tacchi altissimi, spaesata di fronte al pubblico, ma anche accogliente, e ti chiedi se si farà male. No, non si far male, ma è molto probabile che ci farà male. Perché quello che dice non è indifferente. Non è una cosa qualunque. Elvira Frosini, autrice regista e interprete di Digerseltz, va a toccare la soglia fisica che delimita il punto di straripamento del dentro nel fuori e la violazione da fuori dello spazio interno. Come il personaggio di Bocca in Non Io di Samuel Beckett (a cui non fa volontario riferimento), la figura inventata e agita da Frosini è una “piccola minuscola bambina” imprigionata in “questa dannazione di buco”. Ma in questo caso non vediamo solo il dettaglio della bocca (come voleva Beckett), ma la bambina/donna tutta intera, presa dentro questo tormento del dire: dire il discorso che ci parla, esprimere il desiderio ondivago, nominare l’eccedenza, quello spreco batailliano che ci permette l’invasione del comico dentro la tragedia del vivere così come si è: gettati in un corpo che sarà sempre troppo piccolo per contenere tutto questo traffico di pulsioni e ombre che aprono e chiudono porte. La bocca come apertura verso gli inferi e soglia attraverso cui ci si mostra al mondo. La bocca come varco potente di sessualità. La bocca che parla e dovrebbe dire solo quello che vorrebbero che noi dicessimo, ma poi l’inconscio regala un bel lapsus e tutto va in frantumi. La bocca che prende quel cibo che finirà col renderci non attrattivi. Il cibo che ci ammala. La società che ci giudica. Noi che ci giudichiamo. Noi che diventiamo anoressici e bulimici in una carneficina privata. Nella performance di Elvira Frosini, c’è un mondo. E vale la pena andarlo a v
INFORMAZIONI PERSONALI
- KATIA IPPASO
- Giornalista e scrittrice, vive a Roma. Ha lavorato per vari giornali italiani, tra cui “L’Unità” “Rinascita”, Liberazione”. Attualmente scrive di politica e cultura per il settimanale “Gli Altri”. Firma la rubrica “Visioni” per “Nuova Ecologia”. Per l’Ente Teatrale Italiano ha diretto i periodici “La Critica” e “Etinforma”. E’ autrice di una serie di documentari che raccontano i grandi attori del cinema italiano (Anna Magnani, Ugo Tognazzi, Totò), trasmessi tutti su Sy Cinema. Nel marzo 2008 è uscito il suo primo romanzo, “Nell’ora che è d’oro”, ambientato a New York. Con Editoria e Spettacolo ha pubblicato: “Le voci di Santiago”, “Io sono un’attrice –I teatri di Roberto Latini” (aprile 2009) e “Amleto a Gerusalemme”, reportage dalla Palestina (novembre 2009). Alla fine del 2009 crea un’alleanza artistica con Cinzia Villari: scelgono come nome “Le Onde”, dal romanzo di Virginia Woolf. Le due scrittrici stanno lavorando ad una trilogia teatrale sul Giappone contemporaneo: il primo movimento, già in corso d’opera, si intitola “Doll is Mine”. E’ socia fondatrice dell’associazione “Filomena, la rete delle donne”.
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