9 marzo 2014 ore 23:14 Una bella intervista, molto umana, al REGISTA GIULIANO MONTALDO (1971, SACCO E VANZETTI) DI ANTONIO GNOLI—AL FONDO LISTA DEI FILMS—SEMPRE SUGGERITA DAL GRANDE NEMO!

R2 CULT-Cultura
Politica, impegno, amici scomparsi I ricordi di un grande regista
GIULIANO
MONTALDO
Giuliano Montaldo (Genova22 febbraio 1930) è un registasceneggiatoreattore italiano.
“ Il cinema è diverso dalla vita: riempie i vuoti Per questo alla fine si è preso tutto di me”
ANTONIO GNOLI

Gli uomini di cinema, quelli che ho conosciuto, amano invecchiare con le loro donne. Sentirle vicine. Ascoltarne i passi lenti nella casa. Vederne il sorriso indulgente o la parola che compensa il ricordo. Sono strane consigliere. Dure e lievi al tempo stesso. Discrete e imperiose. Non trovo insolito che la prima cosa che Giuliano Montaldo dice, mentre mi guida verso il suo studio, sia che la sola persona che abbia contato veramente nella sua vita è Vera Pescarolo, la compagna, la moglie, la consigliera a volte paziente a volte tranchant: come quel giorno che gli proposero di girare uno spaghetti-western. «Ero tentato. Vera mi guardò. Ne sei convinto? Mi chiese. Poi, dopo una pausa molto teatrale, aggiunse: tu fallo e io me ne vado di casa».
Ricorda cosa le proposero esattamente?
«No, ho solo l’immagine perentoria di mia moglie. E di me con la coda tra le gambe a dirle: non ti preoccupare, non sia mai che faccia un film di cassetta. Allora il cinema era soprattutto questo. Gli anni Sessanta e Settanta furono il trionfo dei generi: mitologico, western, poliziesco, le commediole sexy».
E lei niente. Puro, come il diamante.
«Ma no. Bisogna essere dei veri artigiani, come Sergio Corbucci, o dei grandi, come Sergio Leone, per trasformare un film di genere in una perla rara. Una volta Leone mi propose di girare in “unità due” alcune scene da un film western, che per vicissitudini varie Damiano Damiani non era riuscito a completare. Sergio ne era il produttore. Quando lo vidi dietro la macchina capii che mai avrei potuto imitarlo. Troppo diverso. Troppo bravo. Perciò rinunciai. Però ho sempre pensato con gratitudine a certi registi di “cassetta”. Loro sono stati i veri martiri della qualità».
Cosa vuol dire?
«Significa che prendevano un pallino dalla critica e cinque dal pubblico. Ma senza quel fiume di soldi, che facevano entrare nelle tasche dei produttori, noi, quelli più esigenti, non avremmo girato nulla ».
Come è nato il suo rapporto con il cinema?
«Fu abbastanza casuale. Vivevo a Genova, dove ero nato. E per curiosità avevo cominciato a recitare a teatro. In una di quelle sere mi vide Carlo Lizzani che stava preparando il casting perAchtung! Banditi!
Mi offrì la parte del commissario politico. Accettai. Avevo vent’anni. Senza quell’occasione forse sarei finito a fare il portuale o lo spedizioniere. Invece, mi ritrovai catapultato in un mondo nuovo ».
Le piaceva?
«Abbastanza. Assaporato il frutto proibito, il cinema, dovevo solo decidere il passo successivo. Andare a Roma. Non fu semplice».
Perché?
«Non c’erano soldi. La guerra si era portata con sé il suo corteo di disperazione e di fame. Ricordo le bombe. I morti. Con i miei ci rifugiavamo nei tunnel della città. Tornando da uno di quei ripari scoprimmo che la nostra casa era stata distrutta da un’incursione aerea. Ricordo l’abbraccio disperato tra i miei. Il pianto e papà che diceva alla mamma: “Non ti preoccupare, ricostruiremo tutto”».
Cosa faceva suo padre?
«Aveva fatto parecchi mestieri. Alla fine fu preso come factotum in uno studio di avvocati. Insomma, i soldi erano pochi e se volevo viaggiare, trasferirmi a Roma, sapevo che non potevo pesare sui miei. Quel po’ che guadagnai con il film di Lizzani, insieme a 35mila lire che mi prestò mia sorella Ines, fu investito per il mio sbarco nella capitale ».
Che anno era?
«Arrivai a Roma alla fine del 1950. La città brulicava di pellegrini. Pensavo a mia madre che voleva che mi facessi prete. Ma la città, al di là della patina di sacro, era un luogo di tentazioni continue. Passavo da una pensione all’altra. Ma costavano troppo. Alla fine Lizzani mi suggerì di rivolgermi a una signora che affittava le camere. “Giulià, se sei carino con lei quella te fa dormì gratis”, disse strizzando l’oc-chio».
Andò?
«Andai. Era alta un metro e trenta. Cattivissima e arrapatissima. Dovetti scappare di notte, dopo un assedio durato qualche giorno. Finii nell’appartamento di Gillo Pontecorvo.
Un porto di mare. Intanto Lizzani mi chiamò per interpretare
Cronache di poveri amanti. Mi attaccai a lui perché volevo capire com’era il mestiere di regista. Fu molto generoso. E quando Gillo cominciò a girare i suoi film mi prese prima come segretario di edizione e poi aiuto regista. Dopo un paio di anni si presentò l’occasione per un film tutto mio».
Che anno era?
«Il 1961. Il film fu un fiasco. Stroncato dalla critica. Sia di destra che di sinistra. E disertato dal pubblico. E pensare che era stato portato a Venezia».
Cosa non aveva funzionato?
«Raccontavo la storia di un giovane, di famiglia fascista, che decide di aderire alla Repubblica di Salò. Per poi scoprire che la patria era dall’altra parte. Per me fu un dolore incredibile vedere come il film fosse trattato. Si chiamava Tiro al piccione. E io mi sentivo come quel povero volatile. Per alcuni anni cancellai le mie aspirazioni. Mi convinsi che non ero adatto al cinema».
E quanto è durata questa crisi?
«A lungo. Anche il secondo film, che aveva come spunto il boom economico, si arenò al botteghino. Una bella grinta, era il titolo, fu invitato al festival di Berlino e ottenne un premio speciale. Era il 1965. Forte di quel riconoscimento, un produttore, rischiando i propri soldi, mi propose un film internazionale. Una coproduzione in cui recitavano il grande Edward G. Robinson e Janet Leigh. C’era anche uno strano tedesco: Klaus Kinski».
Strano perché?
«Suscettibile e temutissimo per le sue intemperanze. Un piantagrane quasi quanto John Cassavetes, con il quale feci il film successivo:Gli intoccabili».
Una storia americana?
«Una storia di mafia. Molto prima del Padrino. Cassavetes era famoso per essere uno che non finiva mai i film degli altri. Con me all’inizio fu abbastanza disciplinato. Si sentiva un genio. E per certi versi lo era. Girava con tutto il suo clan. La moglie Gena Rowlands, Peter Falk. John era gelosissimo di Gena. La tampinava ovunque. Non ho mai capito perché un uomo certamente intelligente, un vero animale di cinema, con alle spalle un film come Ombresi riducesse alla stregua di un volpino isterico».
Forse era solo insicuro.
«Conosceva l’arte di rendere infelici le persone che gli stavano accanto. Insopportabile».
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