GIOVANNI IMPASTATO E FRANCO VASSIA, MIO FRATELLO PEPPINO IMPASTATO, TECA LIBRI::: RINGRAZIAMO LA CASA EDITRICE PER LA GENEROSA OFFERTA DI LETTURA DEL LIBRO!

 

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Indice


Prefazione di Umberto Santino                     3

Premessa di Franco Vassia                        10

1.  L'infanzia                                   15

2.  La ribellione e la militanza politica        32

3.  L'idea socialista                            49

4.  Musica e Cultura                             52

5.  Radio Aut                                    58

6.  Le battaglie ecologiche                      64

7.  Il cerchio si chiude                         69

8.  Amori                                        79

9.  Il 9 maggio                                  81

10. Prove di depistaggio                         87

11. Il Centro siciliano di documentazione
    intitolato a Peppino                         97

12. L'inchiesta giudiziaria                     101

13. Tano Badalamenti                            111

14. Il film I cento passi                       113

15. La lotta continua                           116

16. Resistere a mafiopoli                       122

Album fotografico                               129


 

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Pagina 10

Premessa

La storia di Peppino Impastato è una storia di giovani, di ideali, di coraggio, di ribellione e anche di violenza. È una storia tutta italiana.

Per aver dichiarato una guerra irridente e beffarda alla mafia, Peppino fu ucciso in una notte siciliana di tanti anni fa e la sua morte, come quella di mille altri, era destinata esclusivamente ad aggiornare quella lista infinita di crimini relegati nelle pagine della cronaca.

Se la figura di Peppino ha continuato a vivere lo si deve soprattutto all’impegno sociale e civile del fratello Giovanni, assieme a quello dei compagni di Peppino e al Centro siciliano di documentazione a lui intitolato, e a quel vibrante messaggio che, da trent’anni, portano in giro in tutt’Italia e anche all’estero.

Ho conosciuto Giovanni alcuni anni fa, per un’intervista, e da allora è diventato un mio punto di riferimento. Ma Giovanni è anche una conchiglia e, se lo stai ad ascoltare, oltre al rumore del mare di Sicilia ti racconta di amori, di passioni e di sogni che sono poi gli stessi che aveva Peppino. Il suo compito non è soltanto quello di tenere sveglie le coscienze della sua gente, ma stimolare anche quelle di tutti gli altri, compresi coloro che vengono indebitamente definiti da alcuni politici “il vicinato borghese del condominio Italia”.

La storia di Peppino non è soltanto la sua: è la storia dei suoi compagni, la nostra storia, piena di fatti e di gioie, ma anche irta di spine. In pratica la storia atavica di chi non si rassegna a essere un semplice strumento, ma pretende di lasciare una traccia visibile del suo passaggio.

Un merito per la riscoperta di Peppino va anche a I cento passi, il pluripremiato film di Marco Tullio Giordana che ne romanza le gesta, come quelle di un eroe.

Perché, nell’immenso immaginario collettivo, soltanto Ernesto Che Guevara era riuscito a interpretare degnamente la figura sognante e disincantata del guerriero senza macchia e senza paura, schierato perennemente controvento sul crinale dei deboli e dei diseredati. Eppure, quand’anche in sedicesimo, ma con una visuale filtrata attraverso la stessa ottica, esistono tutti i requisiti perché quello stesso alone possa calzare anche per Peppino, il “guerrigliero” di casa nostra.

Una miniaturizzazione che non contempla però una riduzione di intenti e neppure increspature nel merito, quanto piuttosto una visione deformata e umorale di quello specchio che rimanda l’esiguità territoriale del nostro Paese.

Francesco Guccini (che di eroi se ne intende e che, nonostante le quasi settanta primavere, continua a rappresentare un punto obbligato della nostra memoria) in tempi non sospetti ha avuto modo di scrivere che “gli eroi son tutti giovani e belli”. Una frase che, se per alcuni serve a intonacare i muri della retorica, per altri rappresenta invece un’istantanea nitidissima in grado di riportare alla luce quel che la vita e gli anni hanno teso a stemperare e a diluire. Peppino non era di fatto un eroe, ma è morto da uomo libero tentando di aiutare la sua comunità, così come molti di quelli che ricordiamo con questo appellativo, spesso troppo distanziante.

Le scorribande della Morte, comunque, nelle fila degli “eroi”, sono destinate a fallire: quei morti saranno destinati a restare per sempre nelle menti delle passate e delle future generazioni.

La guerra di Peppino, anche se non ha avuto scenari di altopiani o di umide foreste, potrebbe essere idealmente considerata come quella di un moderno “guerrigliero”. Lui, però, era figlio del suo tempo e della sua terra ed è lì che ha perso la vita per tentare di liberarla da un potere spietato.

Peppino non è stato soltanto un avversario della mafia, ma anche il nemico giurato di tutte quelle storture che fanno della politica italiana un’indecente e immorale anomalia.

La Sicilia non è la Bolivia anche se qualche somiglianza e vaghe entità tendono ad accomunarle. Tra queste, le armi e la violenza, spesso utilizzati in funzione alternativa alla parola.

Peppino non sapeva usare le armi ma, di contro, sapeva valorizzare appieno le parole.

Peppino Impastato venne ucciso nelle campagne di Cinisi, prima malmenato pesantemente in un casolare che costeggia la linea ferroviaria Trapani-Palermo e poi trascinato sui binari per essere fatto saltare in aria, nella notte tra l’8 e il 9 maggio del 1978: il suo impegno, la sua sete di giustizia, il suo furore ideologico erano diventati intollerabili per i suoi avversari.

La sua natura alternativa al contesto e la sua strategia nel combattere l’influenza mafiosa con gli spartiti dell’ironia e dello sberleffo erano inaccettabili e impensabili per la famiglia mafiosa di Cinisi, che voleva invece trascinarlo con la sua appartenenza.

La mafia, per decenni, si era abituata alla prepotenza, alla ritorsione, all’attentato vigliacco fino all’annientamento fisico del suo avversario che, spesso, aveva il solo torto di essere un padre di famiglia o un commerciante. Il suo aspetto sanguinario ha sconvolto le coscienze di alcuni, lasciato indifferenti quelle di altri, ma è pur sempre una realtà inaccettabile che continua a imprimere le sue ferite alla società italiana, soprattutto quella meridionale.

Del resto la mafia non è “coppola e lupara”, anche se per anni hanno mascherato il suo aspetto dietro questa sorta di bandiera. Da sempre la mafia ha rappresentato il braccio armato del potere, il “pesce pulitore” dello Stato, le cesoie deputate a potare i ramoscelli cresciuti incontrollati al di fuori del disegno imposto. Anche nel caso di Peppino le cose non sono andate diversamente.

Come si permetteva quel ragazzo così strafottente, sepolto tra valvole, microfoni e mixer, di importunarli e di deriderli dalla sua radio? Come osava ridicolizzarli e offenderli con manifesti sempre più corrosivi? Manifesti che, a Cinisi come in tutta la Sicilia, erano buoni soltanto nei periodi elettorali? Da quale pozzo quel ragazzo traeva la forza e l’energia per inondare il paese con ciclostilati e per essere tanto temerario da fondare e distribuire un giornale?

Le barzellette hanno sempre rappresentato una forma deficitaria dell’intelletto, quasi un’ischemia della ragione, soprattutto dopo l’avvento di un primo ministro che le ha elette a comunicazione mediatica.

Ne esiste però una, particolarmente amara, sulla creazione: dopo aver creato in sei giorni l’intero universo, Dio ne impiegò uno intero per fare la Sicilia. Una distinzione che non tardò a sollevare il bonario rimprovero di San Pietro: “Non è giusto! Non soltanto hai impiegato un intero giorno per fare la Sicilia, ma l’hai anche fatta più bella di tutto il creato”. “Hai ragione” si scusò allora il Signore, “vorrà dire che, per pareggiare le cose, adesso dovrò creare i siciliani”.

Un paradosso che evidenzia però un’ulteriore sbavatura: se voleva crearli cattivi, da dove sono spuntati gli altri, quelli che non esitano a mettere in gioco la vita per la loro terra?

Ma quel che è amaro constatare è che, in questo tempo vile e di squallore mediatico, i loro nomi contano meno dei tronisti e dei cialtroni che occupano l’intero spazio dell’informazione. Perché alla fine, per quella massa informe abituata a svendere le sue serate a un elettrodomestico, sono questi i modelli da seguire.

Ma per l’altra Italia (perché dovremmo ormai averlo imparato che di Italie ce ne sono sempre state almeno due), i nomi di quegli “eroi” sono uomini che nessun Paese civile dovrebbe mai dimenticare.

Una lista interminabile di uomini comuni, servitori dello Stato, giudici, bambini, sacerdoti, sindacalisti, contadini, operai, giornalisti. Centinaia di morti, i primi addirittura alla fine dell’Ottocento.

La Sicilia, nonostante la sua storia millenaria, la sua bellezza seducente, i suoi colori forti, gli odori inebrianti e la sua parte “sana” (che, è bene ricordare, rappresenta pur sempre la grande maggioranza), è sempre stata una zona di frontiera e di esercitazione per il potere costituito. Fin dall’Ottocento in questa terra la repressione e la conservazione dello stato di cose hanno mostrato il loro lato feroce e vergognoso, con la cancellazione violenta delle lotte contadine e di ogni movimento che cercasse di ottenere un cambiamento sociale, stretto nella tenaglia del fuoco mafioso da un lato e delle armi di Stato dall’altro.

Oggi in Sicilia, così come in Puglia, in Campania e in Calabria, lo Stato continua a mostrare i suoi troppi silenzi e l’incapacità di una corretta gestione territoriale, così da coprire vecchie e nuove complicità che trovano nella disorganizzazione e nella gestione privatistica e illegale dei servizi il terreno più fertile.

Ma tra tutti i problemi che sembrano attanagliare queste regioni (il lavoro, l’incolumità fisica, l’acqua…) è necessario segnalare il più grande, che è la Memoria. In queste aree tutto viene trangugiato e digerito senza alcun problema, a cominciare dalla corruzione, dagli scandali, fino alle truffe miliardarie. In capo a qualche mese, grazie alle attenuanti e agli sconti di pena, i condannati saranno nuovamente liberi di agire.

E se in Italia oggi si vanno sempre più consolidando sistemi corrotti, in Sicilia esistono ormai da tempo e sono diventati ordinaria amministrazione. Per una parte ancora troppo consistente della sua gente l’obbedienza servile e il silenzio omertoso vengono scambiati con la convenienza.

In questo mondo perverso e malato, Peppino Impastato, che di questo libro è il protagonista principale, ha rappresentato invece lo scarto di produzione.

Quel ragazzo, così asciutto e con il sorriso quasi sempre oscurato dalle nuvole, doveva essere uno di loro: un mafioso pronto a garantire la continuità. Una storia che era già scritta e alla quale nessuno era deputato ad apporre varianti o modifiche, meno ancora se il suo dna proveniva direttamente da una famiglia mafiosa.

Per quella cultura malata che da oltre un secolo regna nell’isola, Peppino è stato un prodotto difettoso, un manufatto da buttare, incapace di pentirsi e “normalizzarsi”: la sete di giustizia, la voglia di uguaglianza, il rispetto del territorio, la fine delle oppressioni erano idee indigeribili per i suoi avversari.

La mafia, ancora oggi e non solo a Cinisi, ti spia alle spalle, ti controlla attraverso gli occhi sonnolenti della gente, ti guarda attraverso le persiane chiuse in faccia al sole infuocato del Mediterraneo.

Il problema è che ogni giorno di scarti di produzione, di prodotti difettosi e di manufatti da buttare, purtroppo per noi, se ne contano sempre di meno.

Franco Vassia

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1. L’infanzia

FRANCO VASSIA: La Sicilia è forse l’unica delle regioni italiane che può essere confusa con una tavolozza di colori: pennellate talmente violente da sembrare pugni e odori tanto pungenti da restare per sempre incollati alle narici.

E anche l’infanzia, che dagli albori del mondo rappresenta la stagione più bella e spensierata della vita, in Sicilia è uno scrigno di sogni, ancora al riparo dalle ombre e dai pericoli.

In quegli anni, mentre le tragedie che la vita dissemina accuratamente sul selciato del futuro sono ancora ben distanti dagli occhi e ben oltre la linea che delimita l’orizzonte, si teme soltanto il buio più profondo e lo scoppio fragoroso del tuono.

Di quel tempo meraviglioso che appartiene all’infanzia, la mente rimanda profili scuri di bambini sudati in controluce, accecati dal sole che brucia tutto quanto ha la presunzione di specchiarsi nel bacino del Mediterraneo.

Giovanni Impastato ha imparato a convivere con una vita messa di traverso, squadernata, distrutta e poi riscritta.

Il dramma della mafia lo senti quotidianamente ed è quasi una costante per chi nasce in Sicilia.

Giovanni, cosa ti ha lasciato sulla pelle quel periodo?

GIOVANNI IMPASTATO: Della mia infanzia conservo tuttora immagini vivissime. Ricordo soprattutto il periodo in cui, con la mia famiglia, trascorrevamo le vacanze estive nella tenuta di nostro zio Cesare Manzella, in contrada Munachelli. Negli anni ’60 era un vero capomafia, il grande boss della cupola mafiosa. Veniva dagli Stati Uniti e aveva sposato una sorella di nostro padre.

Era da tutti considerato un benefattore. Aveva organizzato in Nord America una raccolta di fondi e con i soldi ricavati aveva fatto costruire una casa di accoglienza per orfani gestita da suore nella piazza principale del paese. Mi dicono che nella stanza della madre superiora, ai lati del crocifisso, da un lato c’era la fotografia dell’arcivescovo di Monreale, dall’altro quella di Cesare Manzella.

Nello stesso edificio aveva fatto realizzare anche un piccolo cinema che era gestito da mio padre, prima che intraprendesse l’attività commerciale.

Di quel periodo ricordo in particolare le serate trascorse sotto il pergolato, ravvivate dal profumo della zagara e dal soffio del venticello che risaliva dal mare.

E poi, come direbbe Luigi Tenco, mi torna anche in mente la “solita strada, bianca come il sale”. Così rivedo quella striscia di terra di un bianco accecante che collegava la nostra abitazione con la grande dimora di nostro zio.

E ancora giornate e giornate di caldo intenso, accucciati nell’erba, sudati e sfiniti nel rincorrere rane e lucertole dal colore verdissimo; l’acqua del pozzo che ci impauriva, ma che ci sapeva dissetare e rinfrescare nell’afa estiva.

Vicino alla rimessa c’era una grande grotta. Peppino, io ed altri bambini vi cercavamo riparo, un rifugio sicuro e inaccessibile per nasconderci e giocare. Un posto magico che, quando calava la notte, risplendeva della luce riflessa di decine e decine di lucciole. Anche Leonardo Sciascia, il grande scrittore siciliano, era affascinato da questi piccoli insetti e richiamava l’espressione in dialetto siciliano: “li cannileddi di li picurari”, le candeline dei pecorai.

Il nostro tempo dell’infanzia non era dedicato soltanto ai giochi, ma veniva quotidianamente scandito dalle tradizionali attività di campagna. Si raccoglieva e si lavorava il pomodoro; si esponeva la salsa rossa al sole sulle tavole, gli “stennitura”, e infine, mettendo a bollire le bottiglie, si preparavano le conserve per il periodo invernale. Partecipavamo ai lavori dei grandi come a un gioco, alla raccolta delle olive, dei fichi d’India, dei limoni…

Ricordo ancora le chiassose mangiate assieme agli uomini della “ciurma”. Seduti sotto gli alberi da frutto, mangiavamo caciocavallo, olive, cipolle scalogne, sarde salate e salsiccia secca.

Non poteva mancare il rito della panificazione. Due volte al mese, le nostre famiglie si riunivano intorno al forno a legna e, oltre alle tradizionali forme di pane, preparavamo anche le “muffolette”, delle pagnotte che, ancora oggi, si mangiano condite con olio e acciughe. Poi era la volta dello sfincione, la tradizionale pizza siciliana che si differenzia dalla napoletana per gli ingredienti: il caciocavallo, la cipolla, l’acciuga. Era davvero inebriante sentire i profumi del cibo di casa fondersi con quelli della natura.

A sera poi, vinti dalla stanchezza, ci ritiravamo nelle nostre stanze per dormire, facendo bene attenzione a lasciare le finestre aperte quel tanto che, all’alba, ci avrebbe permesso di essere svegliati dal cinguettio degli uccelli.

 

Le famiglie patriarcali, soprattutto in Sicilia, sono in genere molto numerose: gente che va e gente che viene. Quasi una piccola comune. Oltre alla tua famiglia e a quella di tuo zio, quali altre persone erano solite frequentare quella grande dimora?

C’era davvero molta gente. Tra le persone che spesso venivano a trovarci, c’era Angioletta Anania, una maestra che mi ha accompagnato per tutta la mia infanzia, dalla prima fino alla quinta elementare.

Tra gli altri che erano soliti frequentare quella casa, ricordo molto bene Filippo Vitale, il fattore morto assieme a nostro zio nell’esplosione della Giulietta. Un uomo che, almeno per me, incarnava in quel periodo la caratteristica figura del contadino. Un uomo semplice, attento nel coordinare i lavori che da sempre regolano i tempi e i cicli della campagna.

Mi sembra ancora di vederli, lui e un mio zio Iacuzzu (Giacomo), fratello di mio padre, vaccaro, detto “u baruni”, ma era tutt’altro che un nobile, sempre appresso agli animali, quando durante le loro pennichelle pomeridiane riposavano sulle “icchiene”, i sedili in pietra affianco alla sua stalla.

Ma la figura che maggiormente attirava la nostra curiosità di bambini era quella di un amico di famiglia, che poi abbiamo saputo essere Luciano Liggio, allora latitante nella villa di mio zio. Liggio aveva quasi sempre stampata in faccia un’aria corrucciata, uno sguardo torvo e quasi angosciante. Era sempre avvolto da una strana aria, come se fosse sulla difensiva e attento a rispondere a una minaccia. Solo dopo ho capito che la sua intenzione era quella di mimetizzarsi e di nascondersi, ma non avrei mai potuto immaginare da chi o da che cosa: all’epoca ero solo un bambino.

Per queste e altre mille circostanze posso dire di aver vissuto la mia infanzia a contatto con la natura e con la mafia, come se la mafia facesse parte in modo naturale del nostro vivere quotidiano.

Per noi bambini la parola mafia non significava niente. Peppino ed io vivevamo in quel mondo come in un sogno, senza renderci conto di com’era fatto; eravamo attori ai quali non era stata ancora assegnata la parte.

Ricordo anche che in paese, nella nostra casa di via Regina Margherita, tra i miei amici d’infanzia c’erano i figli di Procopio Di Maggio e il sindaco attuale, Salvatore Palazzolo. Alle scuole elementari il mio compagno di banco per cinque anni è stato mio cugino Ciccio Impastato, fratello di Luigi ucciso nel settembre del 1981 e figlio di Giacomo, “u sinnacheddu”, anche lui schedato mafioso. Uno dei figli di Di Maggio, Franco, che poi è morto in un incidente stràdale, sarà mio compagno di banco alle scuole medie. Ovviamente non sapevo niente di cosa facesse il padre.

L’infanzia finì in un giorno di primavera. Era il 26 aprile del 1963 quando Cesare Manzella, nostro zio, saltò in aria con una Giulietta imbottita di tritolo.

 

Una tragedia difficile da capire, soprattutto quando si è bambini, ma destinata a segnare una linea netta tra il “prima” e il “dopo”: È così? Cosa ricordi di quel giorno?

Quell’episodio fu davvero sconvolgente. Lo fu per tutti. Io allora avevo soltanto dieci anni. Quel giorno, mentre stava tornando verso casa, nostro zio si era imbattuto in un’automobile, una Giulietta, ferma in mezzo alla stradella che gli impediva di passare con la sua utilitaria. Dopo aver più volte tentato di richiamare con il clacson l’attenzione del proprietario, pensando che si fosse momentaneamente allontanato, nostro zio scese dalla sua auto e, notando le chiavi inserite nel cruscotto, cercò di spostarla da solo. Nel ruotare le chiavi per avviare il motore, la macchina esplose e i corpi dello zio Cesare e di Filippo, che su sua richiesta era accorso per aiutarlo, si ridussero in briciole.

Da quel momento nulla fu più come prima.

 

Un attentato, quello a Cesare Manzella, che segnava anche una nuova strategia nelle stragi di mafia…

Quella Giulietta è stata infatti la prima autobomba della storia della mafia, un salto di qualità nella strategia del crimine. Il 30 giugno, a Ciaculli, quella stessa strategia ebbe una drammatica conferma, ma è da lì, dall’omicidio di Cesare Manzella, che fu sperimentata quella nuova tecnica omicida. Una delle azioni più eclatanti della prima guerra di mafia che scoppiò nei primi anni ’60 e quell’attentato spianò la strada al nuovo boss: Gaetano Badalamenti.

Qualche tempo dopo l’esplosione, con alcuni amici, io e Peppino ci recammo sul luogo del delitto: della macchina non esisteva più niente, soltanto qualche pezzo di ferraglia sparso qua e là per le campagne, partendo dal cerchio del cratere lasciato dall’autobomba.

Peppino aveva allora quindici anni e, vedendo ancora i segni dello scempio, rivolgendosi a noi ragazzi, con un’espressione decisa scolpita nel volto, disse: “Se questa è la mafia, per tutta la vita io le andrò contro!”.

Per un tragico disegno della sorte, soltanto quindici anni dopo, lo stesso destino doveva toccare a lui.

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2. La ribellione e la militanza politica

FRANCO VASSIA: Analizziamo meglio il personaggio principale della nostra storia: Peppino Impastato, tuo fratello che, come una scheggia impazzita, ha fatto deragliare i luoghi comuni dell’onore e del rispetto, sfarinando in un sol colpo tutte quelle realtà che erano state acquisite dalla tua famiglia da troppi anni di appartenenza mafiosa.

Peppino, con le armi dell’ironia e dello sberleffo, ha scalfito le fondamenta di una struttura ritenuta, almeno fino ad allora, inaccessibile e quasi impenetrabile. Come vedevi Peppino? Quel tuo fratello così battagliero che, con il suo atteggiamento intransigente e indomabile, è riuscito non soltanto a mettere in difficoltà il potere mafioso del paese, ma che ha colpito al cuore la sua stessa famiglia?

GIOVANNI IMPASTATO: Con Peppino, a quel tempo, avevo un rapporto difficile, quasi conflittuale. Eravamo totalmente diversi in quanto a mentalità e, anche fisicamente, ci somigliavamo pochissimo.

Oltre alla differenza di età, un fatto non trascurabile che rendeva più complicato anche il nostro modo di comunicare, tra di noi esistevano molte divergenze. Peppino aveva una sensibilità e una maturità spiccata, un intuito al di fuori dal comune e, visto che ero il suo fratello minore, cercava in ogni modo di farmi prendere coscienza dei problemi. E poiché secondo lui non ero abbastanza sveglio, a volte arrivava persino a strattonarmi.

C’erano, però, anche momenti belli, nei quali parlavamo tantissimo, oprattutto dei nostri affanni familiari e del trauma di dover vivere in un contesto comunque illegale.

Su alcune cose ci trovavamo spesso in disaccordo, ma quelle discussiomi, se non altro da un punto di vista affettivo, ci avvicinavano ancora di più e ci univano in uno scambio di idee che per me era fonte di riflessioni. Altre volte, era come se ciascuno di noi si vergognasse dell’altro e si sentisse in colpa per quel che ci accadeva intorno. In quei momenti, per fortuna rari, non ci guardavamo neppure negli occchi.

Nonostante queste difficoltà, ci volevamo davvero un gran bene. Quando poi ero in crisi, da buon fratello maggiore, Peppino cercava di capire il mio stato d’animo e mi stava molto vicino.

Se c’è una cosa della quale mi pento è di non aver fatto lo stesso con lui, forse perché ero convinto che, essendo più grande e determinato di me, non ne avesse bisogno.

Com’era Peppino?

Peppino era mingherlino, ma molto forte, anche fisicamente. Non era mai stanco delle sue passeggiate in montagna, delle giornate che, seduto sul bagnasciuga, trascorreva al mare aspettando il tramonto. Mi tornano in mente i bagni fatti insieme, gli spruzzi d’acqua, i giochi, le gite in barca e la pesca dei ricci.

Credo che, per Peppino, sia sempre stata quella l’immagine della serenità: gli piaceva moltissimo cucinare in spiaggia il pesce che aveva appena pescato. Poi era colmo di passioni, di curiosità intellettuali. E leggeva moltissimo. Ancora oggi, quando rileggo i suoi testi, mi stupisco della varietà degli interessi. Mi soffermo spesso a leggere quei suoi appunti, riflessioni e commenti scritti minutamente negli spazi bianchi laterali delle pagine.

Gli piaceva la letteratura russa, possedeva quasi tutti i testi di Dostoevskij. Amava Sartre, i poeti maledetti francesi, Camus. Aveva anche una forte ammirazione per Pasolini e per i suoi romanzi. Ricordo ancora come reagì quando in televisione dettero la notizia della sua morte. Dalla rabbia tirò verso lo schermo una scarpa che si era sfilata.

Divorava anche saggi storici e le analisi sulla mafia, le opere di Marx, Lenin, Gramsci. La sua non era una lettura superficiale, studiava e approfondiva ogni singola frase: la sottolineava e, nei margini, aggiungeva le sue considerazioni. Mi sembra ancora di vederlo, sepolto dai fogli riempiti da una scrittura, magari scomposta, ma che esprimeva riflessioni molto articolate.

La cultura ha avuto un ruolo determinante, fondamentale per la sua crescita. Lo ha aiutato ad allargare i suoi orizzonti, il suo sapere. Non ha soffocato, come purtroppo è accaduto ad altri, la sua umiltà. Peppino non ostentava atteggiamenti da intellettuale e neppure si sentiva in una torre d’avorio.

Riusciva a comunicare e farsi capire anche dalle persone più semplici, dai contadini e dagli edili con i quali, spesso in dialetto strettissimo, usava le espressioni più popolari e colorite. Aveva accolto nel suo gruppo di amici anche un giovane nero che era nato dalla relazione che durante la guerra una donna di Cinisi aveva avuto con un soldato afro-americano. Questo ragazzo era emarginato da tutti per il colore della pelle; Peppino l’ha aiutato a studiare, era suo amico e anche questo è stato visto come un fatto strano.

Ammirava molto la gente comune, perché diceva che da ciascuno di loro potevi ottenere qualcosa di importante, un piccolissimo pezzo di verità.

Si divertiva a sconvolgere e a scompaginare i codici comportamentali rigidi e bigotti della chiesa cattolica mentre, nel modo più assoluto, non sopportava quelle persone che, fingendosi timorate di Dio e delle sue leggi, approfittavano di ogni occasione per calpestare il loro prossimo. Peppino era ateo e anticlericale, libero da ogni tipo di influenza.

A suo modo era un provocatore, spesso un anticonformista.

 

Nel vostro paese quali sono stati i personaggi che lo hanno maggiormente influenzato?

Uno di questi è stato Stefano Venuti. Peppino, fin da bambino, era affascinato dalle figure al di fuori della norma come quella di Venuti, un uomo che, a Cinisi, andava sempre controcorrente, un comunista che pareva avesse dichiarato una guerra personale alla mafia. Subito dopo la strage di Portella della Ginestra, aveva fondato in paese la sezione del Partito comunista italiano, un gesto dirompente per una comunità come la nostra. Precedentemente, era stato un dirigente del locale movimento contadino. Nel 1947, il 22 giugno, subì un attentato: una bomba esplose nella sede del partito per fortuna senza causare morti. Quel giorno ci furono altri attentati nei paesi vicini, ad opera della mafia e della banda Giuliano.

Il 22 ottobre dello stesso anno, a Terrasini, venne ucciso il militante comunista Giuseppe Maniaci, segretario della Confederterra, che si era politicizzato in carcere, dove era finito per piccoli reati e dove aveva conosciuto dei dirigenti comunisti detenuti politici.

Peppino era molto affezionato a Venuti e almeno nel primo periodo, prima che il Pci subisse una pesante trasformazione con la linea del compromesso storico, la sua figura ha avuto per lui un certo peso. Ne ammirava lo spirito ribelle, la sua avversione al sistema. Venuti, nella zona, era un personaggio piuttosto scomodo per quei tempi. Ma il rapporto di Peppino con il Pci dura pochissimo. Ben presto va al Psiup.

Peppino non era attratto soltanto da Venuti, amava tutte quelle figure che gli sembravano libere e controcorrente. Parlava spesso anche di un capostazione di Cinisi, un certo Peralta che, ai tempi del fascismo, per aver rifiutato la tessera del partito, era stato isolato e ridotto sul lastrico. In paese si diceva che avrebbe dovuto prendere la tessera fascista per non fare soffrire la famiglia.

Erano queste persone ad influenzarlo maggiormente e credo che, anche per merito loro, si sia sviluppata la sua formazione culturale e politica.

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9. Il 9 maggio

FRANCO VASSIA: Qual è l’ultimo ricordo che hai di Peppino?

GIOVANNI IMPASTATO: Qualche giorno prima del suo assassinio, era venuto a casa nostra, per un saluto veloce. È stata quella l’ultima volta che l’ho visto.

E anche quella volta, con l’intento di distrarlo da altre mete, avevo cercato di coinvolgerlo nell’attività commerciale che avevamo ereditato da nostro padre: “Peppino, cerchiamo di organizzarci: non possiamo buttare tutto all’aria. Abbiamo un negozio da mandare avanti…”.

Mi rispose freddamente: “Io ho altro da fare, non me ne voglio occupare. Pensaci tu. Ci sono le elezioni e questa, per me, è una fase decisiva”.

Ho provato a insistere, ma inutilmente.

Intanto, a Cinisi, la campagna elettorale era in pieno fermento. Peppino aveva tenuto una serie di comizi che avevano visto una grande partecipazione di pubblico, in cui aveva disegnato un quadro di connivenze davvero preoccupante, di vera urgenza democratica, denunciando le collusioni politico-mafiose del territorio.

Tra l’altro, nei primi giorni di maggio, un dirigente del Pci di Palermo aveva tenuto nella piazza principale del paese un comizio ma senza toccare minimamente i politici locali collusi. Con decisione, si era schierato contro il gruppo di mio fratello e dei suoi compagni, definendoli straccioni con cui il partito non aveva nulla a che fare. Quella lista con il simbolo di Democrazia proletaria era un problema per tutte le formazioni che, con la torta già divisa in fette, si erano presentate alle elezioni. In quel sistema quella lista era l’unica vera opposizione. Tutti gli altri sembravano non sottrarsi a certe logiche o, al massimo, rimanevano silenti, accettando le speculazioni degli “amici degli amici”. Peppino e gli altri furono ancora di più isolati, con la terra bruciata attorno, come sotto mira in un deserto…

 

Una campagna destinata, la notte tra l’8 e il 9 maggio, a perdere il suo protagonista…

Peppino era certo il compagno più noto e più combattivo, ma voglio ricordare che nelle liste della Nuova sinistra i candidati erano in ordine alfabetico e Peppino era il numero sei.

Qualche giorno prima Peppino aveva rilasciato una lunga intervista a Radio Terrasini Centrale, una radio commerciale locale. Com’era solito fare, Peppino non aveva esitato a far diventare quell’intervista una polveriera. Aveva sfruttato anche quell’occasione per attaccare le connivenze più vistose che legavano i politici locali con la mafia. Accuse che avevano messo in imbarazzo i responsabili di quell’emittente. Per questo dopo l’intervista, insieme ad alcuni compagni, si era precipitato a Radio Aut, per riascoltare il suo intervento. Radio Terrasini Centrale lo aveva censurato. Ogni volta che pronunciava la parola “mafia” o il nome di qualche mafioso, aveva messo un bip.

Arrabbiato e visibilmente contrariato, verso le otto di sera salutò i compagni dicendo loro che andava a mangiare qualcosa e che sarebbe tornato in radio soltanto dopo cena, intorno alle nove.

Lo stesso aveva comunicato a noi che, a casa, lo stavamo aspettando a tavola assieme a una cugina americana, parente di nostra madre, che era venuta a trovarci con la figlia, un’hostess di linea.

Era stata la mia fidanzata a riportare il suo messaggio. Lo aveva incontrato nel pomeriggio alla radio, dove era andata per recuperare una copia delle chiavi di casa, visto che mia madre aveva dimenticato le sue all’interno e se n’era accorta soltanto dopo aver chiuso la porta d’ingresso.

Mio fratello gliele aveva consegnate, dicendole che sarebbe venuto a mangiare qualcosa più tardi. Lo aveva promesso anche alla cugina americana che aveva accompagnato Felicetta.

Ma Peppino non è venuto a casa all’orario di cena. Per lui era normale ritardare, capitava che incontrava qualcuno e si intratteneva con lui. Dopo avere atteso un po’, abbiamo cominciato a cenare.

Ho saputo dopo che la sera dell’8 maggio l’ultimo a vedere Peppino è stato Salvo Vitale, che abitava a pochi metri da Radio Aut. Peppino, come era solito fare ogni sera, lo aveva accompagnato per rientrare poi a Cinisi. Salvo, appena sceso dall’auto di mio fratello, vide una macchina scura che lo seguiva. Un fatto che, almeno in quel momento, non gli fece nascere alcun sospetto. È proprio in quel momento che si perdono le tracce di Peppino.

Erano le dieci di sera quando sentimmo bussare alla nostra porta. Andai ad aprire e vidi tre suoi compagni: Giovanni Riccobono, Benedetto Cavataio e Giosuè Maniaci. Mi chiesero di Peppino e dissi che non lo avevamo visto. Ho chiesto se era successo qualcosa ma mi hanno detto che era tutto normale. Pensavano che dovesse essere a casa, ma sarà in qualche altro posto. Verso le undici e mezzo-mezzanotte siamo andati a dormire.

Alle sei del mattino sono arrivati i carabinieri. Mia madre apre la porta e le dicono che debbono perquisire per “problemi di terrorismo”. Io dormivo nella casa di fronte e sono accorso subito in casa di mia madre che mi aveva avvertito e ho visto i carabinieri che mettevano in grandi sacchi di plastica neri, quelli che si usano per raccogliere la spazzatura, libri, volantini, documenti, tutto quello che trovavano.

Assistevamo a quella scena come ipnotizzati, poiché non capivamo cosa stesse succedendo. Riuscimmo ad aprire la bocca soltanto per chiedere che cosa fosse accaduto: “Nulla! Ragazzate…”, rispose un ufficiale alle insistenze di mia madre. Io pensavo che fosse successo qualcosa, dato che Peppino non era venuto a casa: un arresto o qualcos’altro legato al sequestro di Aldo Moro. In quel momento i militanti della sinistra extraparlamentare erano sotto mira. Ma non pensavo minimamente a niente di tragico.

Terminata la perquisizione, mi portarono in caserma dove, dopo un lungo interrogatorio, in modo brutale mi diedero la notizia: “Suo fratello è morto mentre stava preparando un attentato terroristico. Ci dica quello che sa o sarà peggio per lei!”.

È stato scioccante. Di certo il momento peggiore della mia vita. Ricordo di aver provato una sensazione di impotenza, accompagnata da uno squarcio interiore, come se all’improvviso qualcosa dentro di me si fosse spezzato.

Cosa hai saputo poi della morte di Peppino?

In base a quanto è stato possibile ricostruire nei primi due giorni, grazie al lavoro investigativo dei compagni, Peppino era stato rapito, strappato a forza dalla sua auto e portato nelle campagne di Cinisi, nei pressi di un casolare che sorge nelle immediate vicinanze della ferrovia che collega il tratto Trapani-Palermo, sulla strada che costeggia le piste dell’aeroporto. Probabilmente lo tenevano bloccato, mentre un altro del commando ne guidava l’auto, visto che è stata ritrovata sul luogo del delitto.

All’interno del casolare è stato picchiato a sangue dai suoi rapitori, fino a tramortirlo. Probabilmente gli hanno sbattuto la testa contro un gradone in pietra situato all’interno della struttura e poi lo hanno colpito con delle pietre. Dopo averlo immobilizzato, lo hanno disteso sui binari della ferrovia e, con una carica di tritolo posizionata all’altezza del petto, lo hanno fatto saltare in aria.

Per rivivere le emozioni di quella notte mi basta chiudere gli occhi e sentire una sensazione soffocante, un misto di rabbia, di angoscia tanto forti da togliermi il respiro.

Oltre al dolore, straziante, per aver perduto mio fratello, avevo anche molta paura. Paura di finire in carcere, che cominciasse una persecuzione.

A differenza di altri, la mia partecipazione politica non è mai stata molto attiva, ma sapevo benissimo che alcuni personaggi della sinistra extraparlamentare avevano imboccato la strada della violenza.

Tutti i compagni erano a rischio e le forze dell’ordine, anche con i metodi più drastici, avevano tutta l’intenzione di incastrarci e di zittirci. Cominciarono col mettere sotto torchio tutti i compagni che avevano lavorato alla radio con Peppino e poi, a raggiera, a coinvolgere i soggetti più disparati, esponenti del Pci con i quali non avevamo contatti da anni.

Quel giorno sono stato rilasciato dopo sei lunghissime ore di interrogatorio angosciante: non potevo credere a quanto stavo vivendo, né pensare che fosse quella la realtà. Mi hanno mostrato dei fogli e mi hanno chiesto se riconoscevo la grafia di Peppino. Ho letto quello scritto in cui Peppino parlava di suicidio e ho detto che era la scrittura di mio fratello. Per me era un trauma e ho detto che Peppino non aveva mai manifestato intenzioni suicide, che adesso era impegnatissimo nella campagna elettorale: l’avrà scritto tempo fa, non ora. Ho chiesto dove avevano trovato quei fogli, mi dicono che li hanno trovati in mezzo a un libro. Ho avuto la lucidità per osservare: uno che ha intenzioni suicide non mette la sua dichiarazione in mezzo a un libro, l’avrebbe messa sul comodino, in qualche posto per farla trovare facilmente. Non mi hanno detto nient’altro.

Nello stesso momento c’erano gli interrogatori dei compagni di Peppino, trattati come compagni del terrorista.

I mafiosi non vennero minimamente disturbati, né perquisite le loro case. Ci sentivamo terrorizzati, accerchiati e schiacciati tra l’assassinio di Peppino e la persecuzione delle forze dell’ordine.

 

Subito dopo il delitto è cominciato il depistaggio…

Tutto si è compiuto nel giro di poche ore, quelle più delicate, durante le quali le indagini sono state manipolate e portate fuori strada. Sembrava un vero e proprio complotto: dai carabinieri della caserma di Cinisi che erano stati tra i primi ad arrivare nel luogo dell’omicidio, a quelli del Reparto operativo del gruppo di Palermo comandati dal maggiore Subranni, fino ai magistrati che per primi avevano avuto l’incarico.

Il procuratore reggente Martorana, coadiuvato dal sostituto di turno Signorino, affidarono le operazioni più urgenti al pretore di Carini, Trizzino, che dopo la raccolta frettolosa dei resti di Peppino fece subito riparare i binari. La cosa più strana è che Trizzino, assieme a molti altri, ha sempre dichiarato di non aver neppure notato il casolare. La vicenda giudiziaria doveva chiudersi immediatamente con la registrazione del fatto come attentato terroristico, come suicidio compiendo un atto terroristico. Se si è riaperta si deve all’esposto presentato l’11 maggio da alcune associazioni, tra cui il Centro siciliano di documentazione, che la mattina di quel giorno organizzò un’assemblea all’Università di Palermo, con il docente di Medicina legale Ideale Del Carpio che dimostrò che non poteva trattarsi di suicidio. I compagni di Peppino raccolsero altri resti del corpo di mio fratello e trovarono le pietre macchiate di sangue all’interno del casolare. Al Palazzo di Giustizia il procuratore capo della Repubblica di Palermo, Gaetano Costa, sollecitò il giudice Domenico Signorino a formalizzare l’inchiesta per omicidio contro ignoti. Ma altri magistrati e le forze dell’ordine continuavano a propendere per la tesi dell’attentato. Un disegno che presentava evidenti lacune e numerosi buchi neri come, per fare solo un esempio, la sparizione della casellante in servizio all’orario dell’esplosione, improvvisamente emigrata negli Stati Uniti senza neppure essere stata ascoltata dagli investigatori.

 

E tua madre?

La mattina del 9 maggio mia madre non sapeva ancora nulla. Nessuno era stato in grado di informarla. Quel che ho saputo è che Felicetta, accompagnata dal padre, si era avviata in macchina verso il negozio dove avrebbe dovuto recuperare la mia auto. Scendendo lungo il corso si è accorta che molte persone, raccolte in gruppi a parlare, si voltavano a guardarla con espressioni piuttosto strane. All’inizio pensava si trattasse di una sua sensazione, quella che spesso proviamo quando ci sentiamo osservati. Poi, ha cominciato a capire che c’era qualcosa che non andava. Arrivata al negozio ha notato che mio cugino stava abbassando le saracinesche. È stato in quel momento che Felicetta ha avuto la notizia.

Ha avuto una violenta crisi di nervi e dopo essersi ripresa è andata a casa di mia madre. C’erano alcuni parenti che però non avevano avuto il coraggio di dirle cos’era successo. Lei vagava per casa, confusa, perché non capiva per quale motivo c’erano quei parenti. Vedendola entrare, mia madre le è corsa incontro dicendo: “Ora tu mi devi dire cosa è successo a Peppino!”:

Felicetta è riuscita solo a sussurrare: “Lo hanno ammazzato”.

È stato allora che mia madre ha lanciato un urlo straziante, come se le fosse crollato addosso il mondo. Poi si è zittita. Non ha più sussurrato una sillaba né versato una lacrima.

 

 

 

http://colornews.it/peppino-impastato-una-vita-per-la-legalita/

 

 

newspiernicola

 

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