CONTINUA —3 —DAL POST 1- 2 —- LA DEPRESSIONE …ECC.

   

 

 

XXVIII

 

 

 

 

 

 

 

Forse  quando uno sta così male, anche le capacità simboliche possono essere intaccate, perché si torna indietro, a cercare rifugio in momenti più primitivi della mente.

 

Quello che vorrei è che questo ritorno così doloroso non fosse invano.

 

 

 

 

 

 

“ Ho angoscia. Non è ansia, né agitazione, ma un’angoscia interminabile.

C’è una zona oscura dentro di me.

 

Lì mi sento sola e questa solitudine è più forte della realtà che mi circonda.

E’ come se con l’angoscia mi ritirassi in una regione lontana.

Dove sono assolutamente sola e non ho voglia di vivere.

 

Questo è un grido dentro di me.

 

Lì ci sono solo oggetti, niente di vivo.

 

Assomiglia ad una soffitta dove non va mai nessuno.

 

E, io, questa cosa concreta ce l’ho nella mente.

 

Un ammasso di pietre che mi pesa nella testa e anch’io divento una pietra e non vedo la realtà che mi circonda.

 

Anch’io non sono più viva.

 

Io non ho la sensazione di allontanarmi dalle cose, ma che sia la vita che si allontana.

 

In quella zona oscura un pezzo di me se n’è andato.

 

Là c’è un bambino appena nato cui non è stato tagliato il cordone ombelicale.

Adesso lo vedo chiaramente.

Hanno dimenticato di tagliargli il cordone ombelicale.

 

Intorno non c’è nessuno, ma c’è luce.

Il cordone non è teso, è come se potesse distendersi all’infinito.

 

Il bambino lo lascia srotolare mentre la mamma se ne va.

Il bambino è solo, in compagnia di questo cordone.

 

E’ un bambino così inerte, non sembra provare nessun sentimento.

Forse sente angoscia.

 

 

Quando mia madre è tornata a lavorare, il cordone ombelicale psichico non l’ha mai tagliato.

 

Ha continuato a portarci nella pancia, per questo poteva andare e venire, occuparsi degli affari e stare tranquilla.

 

Non aveva bisogno di chinarsi su di noi.

Non aveva bisogno di accudirci.

 

Tutte le volte che lei parte risento questa angoscia.

E lei al telefono mi dice che si sente menomata.

 

Torno a risentirmi quel bambino solo e nello stesso tempo preso ad una catena.

Dipendente da qualcuno che se ne va per i fatti suoi e dimentica.

 

Un bambino al massimo dell’impotenza perché è impedito di usare le proprie capacità e nello stesso tempo non lo soccorrono.

 

Un bambino che sta lì inerte.

Che ha istinto di sopravvivenza congelato.

 

Anche adesso ho la fantasia che l’aiuto mi debba venire dall’esterno e che non possa usare le mie capacità.

 

Anche adesso non ho istinto di sopravvivenza perché vivo la fantasia che qualcun altro, dall’esterno, lotti per me.

 

 

Là è rimasto un bambino tramortito. Dovrei accudirlo, ma c’è uno spazio mentale che mi separa da lui.

 

Forse è morto e io ho un cordone ombelicale secco che vorrei espellere.

 

Adesso sono in un’altra zona dove il bambino è morto e il cordone è solo psichico.

Ma io custodisco questo morticino perché lì sta la mia forza.

 

Posso dire: “ Vedete quello che mi avete fatto? Mi avete segnato per tutta la vita e io non vi perdonerò mai.

 

Un delitto.

 

Voi l’avete compiuto, ma in quella zona non c’era un io e un voi, quindi l’ho compiuto anch’io e posso vendicarmi su me stessa.

 

 

Ho sempre saputo di avere quest’isola dentro di me.

 

Tanti anni fa ho scritto: se qualcuno arrivasse fino a me, urlerei di dolore, ma dopo sarei viva.

 

Io stessa lo voglio là, questo bambino, isolato.

Ho paura del suo gelo.

 

Devo aver fatto un muro intorno a questo bambino per paura che mi geli tutto il resto.

Allora sarebbe la morte.

 

Devo poter trasformare questo cordone ombelicale da qualcosa che ha tutte le funzioni in qualcosa che ha perso delle funzioni, ma ne mantiene altre.

 

Devo accettare un periodo di trapasso, una gradualità.

 

E questo bambino, non posso lasciarlo morire.

 

Ma deve rivendicare a sé la sua ragione di vivere, la funzione elementare di avere la forza vitale.

 

Primo perché ce l’ha già e poi perché ha verificato che gli altri non possono dargliela.

 

Adesso l’angoscia mi è passata e posso guardarmi intorno.”

 

 

 

Questo scritto è di dieci anni fa, ma mi è venuto in mente.

E, certamente non a caso.

 

Qualcosa si è mosso là.

E’ così, anche se non sto male.

 

In questo dieci anni ho imparato a perdonare.

 

Perché quella zona di pietra si è, in parte, animata.

 

E, le pietre rimaste, bisogna lasciarcele stare.

 

Quello che non so ancora è se sono capace di perdonare me stessa.

 

Un malato di mente fa molto fatica a perdonarsi di essere un diverso.

L’onnipotenza gli fa allucinare che la colpa è assolutamente e solo sua.

 

 

 

In questi anni, ho potuto spostarmi da una posizione passiva, inerte, ad una attiva, e questo può cambiare tutto.

Perché si modifica proprio la struttura di base da cui parti.

 

Ma quando sei in depressione, questa nuova acquisizione sembri perderla.

 

E alla mente ti affiorano gli antichi incubi.

 

 

                                                  XXIX

 

                                                       

 

 

 

 

Voglio aprirti un piccolo spiraglio sulla mia malattia.

 

Spiraglio che io so bene tu non vuoi che apra, perché ti darebbe dolore e tu rifuggi da questo dolore, preferisci lasciarlo a me sola.

 

 

Voglio stare qualche minuto in silenzio con te, chissà che da questo silenzio non ti arrivi qualche immagine di una sofferenza così crudele come è quella della depressione.

 

Un depresso è proprio una persona “con le redini rotte”.

 

 

 

Ma io ho bisogno di parlarti.

 

Sono qui ad incolpare i medici perché non mi hanno fermato in questo sfacelo, loro sono attenti ai perché e ai percome, tu hai avuto il coraggio di quel bambino che ha gridato: “Il re è nudo”

 

Mi è servito ?

 

No, allora non mi è servito, tanto è vero che ho continuato ad ingrassare,  sono stata troppo male.

 

Ma mi serve oggi, oggi che sono rientrata in me e posso vedermi, prima non potevo.

 

Oggi sono contenta di avere una persona al mondo che mi dice la verità senza farsi venire dubbi o ripensamenti, senza perdersi nel significato delle cose.

 

E’ come dire “basta” a un bambino che continua a fare capricci, per i quali avrà tutte le sue buone ragioni, ma c’è un “basta” che gli devi dare perché tutto ha un limite, le cose umane hanno un limite, e questo limite va rispettato, anzi, salvaguardato.

 

Io devo trovare il limite di questa depressione, darmi un “basta”, non sono mai stata due anni in depressione.

Dopo la peggiore internazione ero arrivata ad un anno.

 

Vorrei che un altro sapesse darmelo, perché io ancora non ci riesco.

 

Vorrei poter fare un bilancio su cosa ho imparato e vedere se è sufficiente.

Vorrei avere il coraggio di sentire una spinta verso la vita.

 

Tutte le volte che esco dalla depressione, devo accettare il rischio della mania.

E, tutte le volte, mi sembra al di là delle mie forze.

 

Perché devi sopportare una sofferenza inumana.

 

Anche se non è detto che sia così.

 

Solo che non lo sai.

 

Dovrei anche poter accettare che quello che non ho capito, lo capirò un’altra volta.

Che posso lasciare delle zone oscure senza sentirmi minacciata.

 

Anzi, che le zone oscure sono morbide e soffici come un cuscino.

 

Tu sei così.

Morbidissima.

 

Io ho la mania della luce.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                   

 

                                                     XXX

 

 

 

 

 

 

Se mai fossi stata capace di rispettare i limiti di me stessa, forse non mi sarei mai ammalata, perlomeno in una forma grave.

 

Ma per rispettare i propri limiti bisogna aver prima disegnato un perimetro di noi stessi.

 

E’ questo che i malati come me non sono riusciti a fare.

 

Nessuno impara i propri limiti se non si vede prima rappresentato negli occhi di un altro che lo guarda con amore.

 

Questo sguardo lo cerco ancora continuamente, ma non lo troverò da nessuna parte.

Devo apprendere a rinunciarci.

 

Capire che quello che è stato è stato.

 

 

 

 

Tu sei limitato quando hai un’immagine di te stesso.

 

Quando sei riuscito a farti quest’immagine.

 

E la vedi proiettata come  su uno schermo.

Davanti a te.

 

Tu sei quella cosa lì.

E sei privo di un’infinità di altre cose.

 

Sei carenza di essere, bisogno di… apertura obbligata.

Non sei solo presenza.

 

E gli altri hanno un altro disegno.

 

Allora capisci che hai dei contorni, non sei più evanescente.

 

Sei uscito dalle nebbie dell’illimitato dove tutto era possibile.

 

Diventi una cosa concreta, una parte piccola delle varie cose del mondo.

Devi morire come tutte le altre cose del mondo.

 

I tuoi desideri si limitano a quella parte della vita che hai ancora da vivere.

Il passato non c’è più, non hai niente da rivendicare.

Ti sei pacificato con il tuo destino.

 

Approdi in una terra dove se hai fame, mangi, e dopo che hai mangiato la fame ti è passata.

E questa scoperta di sembra straordinaria.

 

Quando accetti di saziarti, vuol dire che sai che sei limitato.

Sai che le cose vanno, ma possono ritornare.

 

Sei uscito dal ritmo dell’eternità, dalla dimensione dell’infinito, il muscolo della tua bocca si è rilassato e si è ristretto.

 

Ma devi, prima,  riuscire a parti passare quel desiderio insaziabile per il quale anche l’illimitato  sembrava poca cosa.

 

Troppe privazioni passate che hai dovuto ingollare, ma che ti sono rimaste in gola.

 

Troppa bramosia, come un lattante che spalanca per la prima volta la bocca sul mondo.

E vorrebbe ingoiarlo intero.

 

 

 

Se ci riesci, e ci vuole un lungo apprendimento, allora significa che quello sguardo, che ti rispecchia e ti contiene, sei riuscito a dartelo tu.

Tu, e le persone a te vicino che rimandano la tua immagine.

 

Ma per un malato di mente non è una cosa facile.

 

Accettare dei limiti significa per lui accettare fino in fondo la sua malattia.

Deve smettere le rivendicazioni verso gli altri, tutti gli altri, l’umanità intera.

E la straordinaria invidia dei normali.

Quelli che non fanno fatica a vivere.

 

Capire che ha speso la vita curandosi.

 

Stavo per dire: che ha perso la vita curandosi.

 

E rallegrarsi di quello che ha ottenuto.

 

Anche se una gran rabbia gli monta dentro.

 

Che sia proprio toccato a lui, tra tanti, gli sembra un’ingiustizia assoluta,  innominabile, per la quale non c’è riparazione possibile.

Un attacco di lesa maestà.

 

Dovrebbe sapere cosa farsene di questa rabbia, visto che non può più prendersela con nessuno.

 

Dovrebbe poterla trasformare in qualcosa di positivo, in accanimento per curarsi, per rispettarsi nei suoi limiti che sono molto più grandi di un altro.

Dovrebbe farla diventare qualcosa creativo.

Ma come?

 

Se non ci riesce, se non può incanalare questa aggressività, cade in depressione, perché la sfoga su se stesso.

 

Non è certamente un caso che mi sia venuta la voglia di scrivere in questa depressione.

 

Sto provando ad incanalare la mia rabbia in qualcosa di costruttivo, che mi costa fatica e impegno.

Così si trasforma in energia utile.

 

Non so ancora se ci riuscirò, se avrò il fiato lungo di portare a termine questo lavoro.

Ma questa voglia di fare un tentativo, senza sapere cosa c’è dietro l’angolo, questa possibile attesa, mi dà felicità.

 

 

 

 

 

 

                                                  XXXI

 

 

 

 

 

 

Tu hai imparato anche troppo i limiti, in casa, con tutte quelle botte che hai preso.

 

Io non sono mai stata picchiata.

Avendo cinque anni meno di te, avevo imparato da te come si fa ad evitare le sberle.

 

Bastava essere tutto il contrario di quello che eri tu, così questo bisogno di essere il tuo contrario me lo sono portata dietro tutta la vita.

 

Questo bisogno di ripetere funziona anche se non vuoi.

Non te ne accorgi.

 

Io dovevo ripetere il contrario di quello che eri tu.

 

Invece dovrei imparare ad imitarti, almeno nelle cose utili.

 

Avrei bisogno di capire che sono solo mezza mela e che tu, con il tuo essere, potresti insegnarmi l’intero.

 

Dovrei poter spezzare la catena della ripetizione.

 

 

 

 

 

 

Non vuoi sapere della mia malattia, anche se cento volte al giorno mi chiedi come sto, se le medicine, se i medici, se il peso…

 

Ma io ho capito, in questa depressione, che è meglio soffrire da soli che mal accompagnati.

E una persona che ti ama è sempre una pessima compagna perché ti comunica la sua ansia, la sua sofferenza e, in certi momenti, il suo panico.

 

Mi ci sono voluti anni per impararlo, e lo sento come una liberazione, perché almeno soffri quello che ti tocca, e basta, non c’è surplus.

 

Questa è la pazzia privata.

 

C’è gente, la conosco, che trova energia per andare avanti nella depressione, bevendo la sofferenza rispecchiata negli altri, ma a me fa solo male, perché accresce il mio peso.

 

Ti senti tirata da troppe parti, anche perché tutti hanno una ricetta infallibile :

 “Sforzati!”

 

“ Fai uno sforzino” mi dici tu teneramente al telefono.

 

Il bisogno dell’altrui sofferenza è una cosa tipica di chi è in depressione, l’ho osservata più volte,  forse non in me, dovrei pensarci.

 

Io ho la fortuna di avere vicino persone che non si prestano al gioco, ma certamente in altri l’ho vista.

 

Ho conosciuto una persona che aveva bisogno di applicare una specie di dittatura della sofferenza sulla famiglia intera.

Nessuno poteva ridere o divertirsi.

 

La persona depressa continua a dire “ho sbagliato, sono sbagliata, sono un’incapace”, ma queste accuse a se stesso, nella realtà più profonda, si rivolgono a qualcuno, e per generalizzazione, a chiunque, al mondo : “Guardate come mi avete ridotta!”

 

Per questo quasi tutti i depressi si conciano in modi orribili, cercano compassione, ma in realtà  sono un “J’accuse” vivente.

 

E sempre per questo i depressi non vogliono migliorare, perché “il colpevole” smetterebbe la pena, è una specie di vendetta.

 

Una vendetta che prende ad oggetto, in realtà, soprattutto se stessi.

 

E le persone che  stanno loro intorno, non li reggono, non reggono questa continua accusa.

Le persone intorno capiscono, senza bisogno di dirlo.

 

Uno può uscire dalla depressione solo se è stato capace di perdonare quello che ritiene sia la causa dei suoi mali, o in gergo, il suo persecutore, quanto meno quello che lui ritiene tale.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                   XXXII

 

 

 

 

 

Mi dirai : tu che parli con tanta sicumera, perché non ti serve a niente ?

 

Ma non è detto che non mi serva a niente.

 

La terapia psicoanalitica è basata su un’idea : avere un’insight, mentre sei in una relazione,  è già una modifica.

 

A questo io non credo più, non credo perlomeno che vada necessariamente sempre così, perché, se le cose le so, allora perché non mi modifico?

 

Credo, per esempio, che prendere qualche buona abitudine, introdurre delle modificazioni nel comportamento, possa aiutarti anche di più che capire, anche perché, capire, non è così facile.

 

Non è così facile sapere chi sia la persona che accusi, e anche quando l’hai saputo, cosa fai?

 

Non puoi certo modificare quella persona, né fare in modo che quello che è successo, non sia successo.

Dovresti convincerti che l’accusi ingiustamente, che in realtà la colpa è solo tua.

Oppure sentire un perdono incondizionato, ma non sempre il tuo inconscio te lo permette.

 

Quelli che sono malati come me devono vivere perdonando perché loro, la loro vita così dolorosa, il loro essere così pesante, è frutto di un codice genetico e di un ambiente, tutte cose che non si sono date loro.

 

Con questo non voglio dire che non abbiano anche delle responsabilità, ma le loro responsabilità partono da una storia già scritta.

 

Per questo mi piace tanto la poesia di Borges.

 

 

 

 

Tornando alla mia coscienza morale, diventare papà e mamma, sentirli uniti in me, amorosi l’uno con l’altro, è la mia forma di perdono.

 

E allontanarli un poco da me.

Perché così riguadagno una mia possibilità di agire, nonostante tutto.

 

Devo perdonare Mario di essere il mio opposto, oggi il suo essere non mi si contrappone più, ma lo sento vivere in me.

Sono più intera.

 

E devo perdonare il mio terapeuta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                               

 

                                                    XXXIII

 

 

 

 

 

 

Dopo due anni di terapia, il gennaio scorso, gli ho detto: “Adesso si renderà conto di come mi ha ridotta”.

 

Era una battura, tutti i pazienti accusano implicitamente il terapeuta delle loro disgrazie,  ma solo oggi capisco fino a che punto era vero.

 

Anche se lui non ha nessuna responsabilità dei miei giri di mente.

 

Vedi, io non avevo capito che se – a livello cosciente – discriminavo anche bene tra l’analista e il datore di lavoro, a livello profondo, tanto profondo che c’è voluto così tanta sofferenza per tirarlo fuori, queste due figure erano una sola, come era, del resto, nella realtà.

 

E le mie emozioni lo sapevano, loro agivano in base al conscio e all’inconscio.

 

Questa depressione aveva un obiettivo : togliermi da quel lavoro e da quel tipo di rapporto con il terapeuta.

In questo c’è riuscita benissimo.

 

Credo oggi che non sia possibile passare da pazienti a dipendenti perché solo il fatto che ricevi dei soldi ti mette in difficoltà.

 

I soldi sono un simbolo molto comune di potere, ma nel mio inconscio il potere è solo sessuale, allora io divento una prostituta e mi disoriento completamente nel chiedermi : quali prestazioni dovrò mai fare ?

 

Perché non approva quello che faccio ?

E quando mi urla per qualcosa di sbagliato, cosa avrò mai fatto ?

Lui che rappresenta mio padre e mia madre ?

 

Ma non era solo questo.

 

Se fosse solo questo non si capirebbe come ho fatto a lavorare tranquilla per tre anni.

 

E’ vero che dall’inizio dell’anno scorso non mi si chiedeva più di fare ricerche e schede, ma di vedere solo pazienti nella qualità di paziente guarita.

 

Credo che, perché un paziente possa svolgere questa attività, sia necessario acquisire prima che l’essere pazienti è un’attività che dà delle conoscenze a partire da un vissuto.

E che queste conoscenze hanno uno statuto teorico.

 

Ma nella nostra cultura il vissuto non ha molto valore.

 

Chi fa la terapia deve essere il terapeuta, ma tu, che hai già percorso una strada, sai seguire un altro in una serie di piccole mulattiere che al terapeuta possono essere sconosciute.

 

E i piccoli gradini, quelli più vicini al punto in cui ti trovi, sono i più necessari.

Perché superarli ti dà la speranza di una modificazione.

 

A volte basta muovere una paglia in quella terribile immobilità per acquistare slancio.

 

Il terapeuta, di solito, ti offre delle aperture, ma non sai come arrivarci, ti manca proprio quella piccola stradina che potrebbe portarti alla via principale.

 

E non sempre può condurti in quel labirinto di passioni che accompagnano ogni piccolo passo e raccoglierti quando vai indietro o ti fermi.

 

Tu offri al paziente un’appartenenza, uno specchio che è una rete.

 

Un suo simile diventa compagno di viaggio in un mondo che non è solo totale estraneità, ma condivisione.

Una patria, per quanto piccola, in cui puoi riconoscerti.

 

 

Ma per poterlo far diventare un lavoro, deve essere riconosciuta al paziente che fa il co-terapeuta una dignità, una professionalità che in genere non si sa riconoscere.

 

Bisognerebbe poter introdurre l’idea di una collaborazione alla pari, ognuno con le sue competenze.

Ma questo è impossibile.

 

Il sapere teorico in possesso del terapeuta fa sembrare un paziente, anche se ha percorso una strada, sempre un minus quam.

 

 

 

Avevo, soprattutto, il timore che non sarei riuscita a tenere a bada la mia parte psicotica, e se questo sia possibile, se un malato ci riesca, a contatto con altri malati,  non lo sa nessuno.

 

La pazzia è contagiosa come l’influenza.

Basta osservare una famiglia quando uno di loro si ammala.

 

 

Non sono riuscita a fare il salto da dipendente a co-terapeuta : una parte che ho dentro, molto invidiosa di me stessa, non me l’ha permesso, dovevo continuare ad essere una vittima.

 

Forse oggi so perchè questa parte non mi permette di avere delle qualità.

Dovrei raccontarti un sogno in cui io sono vestita di rosso.

Ma non saprei dove ripescarlo nei quaderni.

 

 

Quello che sembra inverosimile è che, non sapendo questo, io sia andata avanti per due anni a mimare la “rovinata” dalla persona incaricata della mia salute.

 

E ci andavo in terapia, forse a questo scopo : perché vedesse!

 

Ho testimoniato questo dramma, non potendo simbolizzarlo.

 

Acquisire la capacità di pensare è per me molto difficile.

 

La cosa più difficile per un malato mentale è perdonare se stessi, mollare tutte le rivendicazioni che ha dentro, la rabbia che si è ingoiata e dire: “ Vivo come se tutto questo non fosse successo, perché vivere è bello nonostante tutto”.

 

Perdonare vuol dire “ lasciar cadere, dimenticare, fare come non fosse avvenuto niente”.

 

Solo allora, se riesci a farlo, acquisti un altro sguardo sulla tua vita.

E sei vivo.

Esistente.

Con tutti i diritti di esistere e di goderti la vita.

 

Il tuo prezzo l’hai già pagato.

 

 

 

 

                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                XXXIV

 

 

 

 

 

Mi piace amarti vezzeggiandoti, accarezzare il tuo narcisismo che è già splendente, tu sicuramente ti ami e ti piaci, ti piaci straordinariamente, è per questo che sei così bella, ma come hai imparato ?

 

Vado in giro a fare questa domanda a tutti, anche se non la formulo, ma forse dovrei chiedermi : come ho fatto a non imparare io?

 

Anche il narcisismo, nel senso bello della parola, di qualcuno che si vuole bene,  è rimasto a te.

 

 

Viste dall’esterno, noi due abbiamo sempre funzionato come due vasi comunicanti in cerca di un equilibrio.

 

Due immagini speculari.

 

Se ci avessero programmate al computer non saremmo uscite così perfette.

 

E’ come se a casa nostra ci fosse stato posto solo per un unico brillio.

 

Tu questo lo sai, questo non puoi essertelo dimenticato, nella nostra famiglia poteva brillare una persona sola  ed era nostra madre.

Non ha mai accettato concorrenti.

 

Tu da subito ti sei schierata dalla sua parte e forse per questo hai potuto alimentare una tua fiammella.

Anche la mamma era innamorata di se stessa e questa energia è passata a te.

 

Io mi opponevo a lei con tutte le mie forze, non ho mai potuto zampettare nel suo giardino e questo  ha significato dover vivere nell’ombra.

 

Mi sono sottratta a lei e alla sua luce, sono rimasta con il buio e con il vuoto.

Tu hai saputo nutrirti con quello che c’era, non eri così scema da rimanere affamata.

Forse non potevi.

 

Io potevo, avevo tanta gente che si occupava di me e che io ammiravo, avevo cominciato a leggere, potevo dormire solo quattro ore, avevo degli arretrati.

 

Mi è rimasto un buco pieno di parole dette da altri che oggi mi provo a far risuonare come una voce mia attraverso questi scritti.

 

Non ne sarò capace, una voce tua non te la inventi se non ce l’hai, se non l’hai mai avuta.

 

Ormai sono passati tanti anni, ma questo vuoto, questo buco d’ombra in cui sono cresciuta,  è rimasto, e tante persone che mi amano e mi hanno amato, tanti anni di terapia, non hanno potuto riempirlo.

 

Convivere col vuoto, come si fa, se questo vuoto sei tu stesso?

Se è una parte di te?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                XXXV

 

 

 

 

 

Comportati come se ti amassi e imparerai a farlo, questo lo suggerisci tu, ed è forse la strada.

 

Io, l’unica cosa che capisco, è che questo movimento deve partire da me, c’è un grande assente in tutta la storia della mia vita e questo assente sono io.

 

Io ho sempre aspettato che piovesse, e l’unica cosa che ho saputo fare è stato vestirmi da matta e fare delle danze propiziatrici, ma non ho mai pensato di incanalare e utilizzare la poca o tanta acqua che avevo, per irrigare il mio terreno.

 

Forse non avevo un terreno e se oggi ce l’ho e lo riconosco, questo lo devo senz’altro alla terapia.

 

Tu hai sempre utilizzato al massimo le tue risorse e soprattutto hai saputo porti dei grossi limiti, con questi hai tracciato lo spazio in cui muoverti, e al di là di questi non hai mai voluto guardare.

 

Io ho i vizi della persona nata con delle risorse, mi veniva facile fare le cose.

 

Il primo vero limite l’ho avuto quando mi hanno internato, avevo trentadue anni, ma non mi è bastato a capire.

 

Mi è stato più facile credere che non avessi risorse, che fossi sbagliata, che fossi diversa.

 

Più facile che ammettere che anche le migliori risorse hanno dei limiti che vanno rispettati religiosamente e che forse, i miei limiti, erano più rigorosi di quelli di un altro… comunque sia, non ho potuto capire che erano senz’altro limitati rispetto all’infinito!

 

Questa brama di infinito, se non riesci a portarla fino in fondo, fino ad un Tu, può rovinare una vita, perché se non lo trovi, te ne vesti tu, piuttosto che farne a meno.

 

E i malati di mente come me hanno questo desiderio di infinito.

 

 

 

Perdere questa veste di qualcuno che ha un pozzo senza fondo, mi è ancora difficile oggi.

 

Ma insieme mi viene da dire : se il segreto è tutto qui, allora è facile.

Basta attenersi alle regole, regole tracciate da secoli, che ti dicono che se continui a tirare una corda, questa si strappa.

 

Soffro a rinchiudermi nei miei limiti, mi sembra la più grossa disgrazia che mi possa capitare, il mio narcisismo malato traballa, ma ancora vuole esistere.

 

L’ultimo atto di un dramma già concluso da tempo, qualcuno mi lacera qualcosa di intimo, mi strappa una maschera invisibile e dice: “Ma è come tutti gli altri!”.

 

Come tutti gli altri, non l’ho mai tollerato.

 

Qualcuno che tutti i giorni fa i conti delle energie che ha, e quelle che non ha, non le spende.

 

Io ho sempre speso energie che non avevo, “scegliendo” di ammalarmi piuttosto che impormi “qui non arrivo” “là non ce la faccio”.

 

Insomma era preferibile la malattia piuttosto che strapparmi da un’immagine idealizzata, perché sarei capitombolata dal cielo alla terra.

 

Forse sarei caduta in un abisso dove non sarei esistita più.

 

Tu non lo sai, non mi pare di averne mai parlato, ma mentre ero legata su quella ambulanza, parlavo dell’essere umano ideale, usando gli autori dell’epoca, ma rifugiarsi in un’immagine ideale, in quel momento, si capisce..

Forse, la mia, era una preghiera, ma non lo sapevo..

 

Più che una preghiera era un grido, un grido che forse cerco di raccogliere oggi.

 

Ma lo devo trasformare in qualcosa di umano, di finito come la terra e il cielo, come ogni creatura vivente.

 

Questi scritti, anche se non lo sembrano, sono un grido rivolto alle persone normali perché mi offrano la possibilità  di avere anch’io diritto di esistere.

Non basta più che me lo certifichi da sola.

Ho bisogno di raggiungere un mondo comune.

 

 

 

 

La mente è veramente infinita, e dovresti poterti raccontare da una infinità di punti di vista.

 

La mia malattia potrei anche raccontarla come la storia di uno che bussa ad una porta, vuole essere ascoltato, nessuno risponde, bussa più forte e va avanti, per anni…

 

E’ stato solo uno stimolo così forte come la mia internazione che ha fatto capire alla mamma che avevo bisogno di lei.

 

Io sono andata avanti ad aumentare lo stimolo, anno dopo  anno.

Potrei farti un elenco di fatti.

 

Questo è un aspetto che posso cogliere io.

Ma quanti altri ce ne saranno?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                              XXXVI

 

 

 

 

 

 

“Ma cosa te ne fai ?“, mi  dici tu.

Tu dovresti dimenticare, non star sempre lì a toccare una ferita.

 

Ma come si fa a dimenticare ?

 

Se ti conosco: “Dimenticando, occupandosi d’altro”.

 

Comunque hai ragione tu, si dimentica impiegando la volontà di dimenticare.

 

La volontà, è il tuo chiodo fisso.

La ragione, la volontà di capire, è il mio, e ancora siamo due parti di una mela.

 

Per dimenticare, devo poter vedere un evento traumatico da più angoli possibili, comprendere.

 

Allora ti quieti, sai le ragioni possibili di un tuo comportamento e delle conseguenze, puoi mollarlo, lasciarlo andare.

 

E col tempo, se non dimenticare, perché questo è impossibile, vivere come avessi dimenticato: hai lasciato il tempo di cicatrizzare la ferita.

 

Dimenticare vuol dire sgravarsi, e puoi farlo solo dopo che la gestazione è arrivata a compimento, ognuno ha dei tempi e questi tempi non possono essere saltati.

 

C’è un altro modo di dimenticare, ce ne saranno mille più mille, ma uno che ho visto ed è estremamente usato. 

 

Bisogna avere un paio di forbici e tagliare.

 

Poi buttar tutto nel più profondo dimenticatoio della nostra mente.

 

Senza questa capacità non si può neanche vivere.

 

Perché è proprio attraverso questa capacità che tu regoli il ritmo di quello che puoi masticare e assorbire e di quello che non puoi.

Quello che non puoi, lo tagli via, lo espelli.

 

Questa capacità, se usata principalmente per affrontare la realtà, ti porta, magari, ad avere un mondo interno stretto come una tagliatella, ma nel caso opposto, che è il mio, passi il tempo a ruminare, e poi sei sempre pieno di cose che non riesci ad assimilare e te le tieni lì.

 

Tu, per esempio, che devi conservare tutto, fai con gli oggetti esterni quello che io faccio con quelli interni, e devi farlo così compulsivamente, naturalmente a mio parere, perché invece, del mondo interno, in quattro e quattrotto te ne liberi.  

 

Ti liberi di quello che potrebbe infastidire il tuo equilibrio e il tuo buon umore.

 

Questa liberalità, io l’ho con l’esterno, con gli oggetti esterni, tanto è vero che sono ritenuta troppo generosa.

 

Questa capacità di negazione però non te la puoi dare, è qualcosa che hai o non hai, tanto è vero che non ti accorgi neanche di esercitarla.

 

Per averla bisogna avere un “io” molto forte, cosa che un buon psicotico, a mio parere, non può avere, è proprio lì il suo deficit.

 

E allora, come fa?

 

Si arrangia, non può tagliare, deve poter comprendere, deve seguire la strada più difficile e meno economica.

 

Se uno psicotico potesse vivere mille anni, e avesse molta fortuna, diventerebbe anche una persona migliore, forse un saggio, perché ha mantenuto integro il suo mondo interno.

 

Ma lui lo fa appena perché non sa fare diversamente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                              

 

                                                  XXXVII

 

 

 

 

 

 

Quando è morta la mamma, tu hai fatto così, come un buon nevrotico.

 

Il giorno dopo il funerale, al mattino, prendendo insieme il caffè, mi hai detto “Io so di aver fatto tutto il possibile, adesso sono serena”.

 

E senza accorgertene, hai tagliato via tutti i dubbi e gli strazi che avevi durante la malattia, tanto che Antonio ed io eravamo più preoccupati per te che per lei.

 

E tu, mi dirai, come hai fatto?

Anche tu eri serena.

 

Un giorno, forse, ti racconterò la mia storia.

 

Quei giorni passati con lei, l’ultimo mese,  mi hanno permesso di ritrovare quell’incredibile amore che io dovevo avere per lei da piccolissima – la mamma era una persona allegra e, allora, era giovane – prima che lei decidesse di svezzarmi e di tornare a lavorare.

 

E il suo per me.

 

Avevo solo diciotto mesi, e  da allora quest’amore reciproco era stato ricoperto da una lastra nera, per me e per lei: ansiosa come era, non avrebbe mai potuto lasciarmi in mano ad altri, se non avesse potuto girare pagina.

 

Io avevo dovuto negarlo, spostarlo in un punto così lontano della mente che non lo sentivo più.

 

Vivevo come non fosse mai esistito, mi sentivo orfana e abbandonata dalla nascita.

Forse anche da prima perché non aveva potuto risparmiarmi i suoi terrori.

 

Questo amore così grande si era convertito in profondo odio nel registrare che non vedeva neanche che fossi al mondo.

 

Tu ti sei accorta quanto ne soffrissi perché hai cominciato a farmi un po’ da mamma.

E continui a farlo senza accorgerti che sono già vecchietta e, forse, capace di accudirmi da sola.

 

Ma la percezione della realtà, tra noi, non è molto importante.

 

Mi sento bene ad essere, in certi momenti, ancora un po’ figlia e a te fa piacere girarmi intorno per tante cose cui non bado, come per esempio, i vestiti.

Questo tuo modo di amarmi mi fa bene e mi aiuta.

 

 

 

Con la mamma non è successo tutto all’improvviso in quell’ultimo mese.

 

Da quando la mamma aveva capito, mi aveva testimoniato una profonda dedizione.

C’era stata una lunga preparazione, durata molti anni.

 

Quel mese è stato il ripresentarsi, attuale, di un’antica situazione appassionata, con i ruoli invertiti, perché io facevo la mamma e lei la bambina bisognosa di cure.

 

Eravamo “ tu e me, io e te”, come diceva lei.

 

Riuscire a non perderla di vista un secondo, accudirla ad ogni istante, mi ha dato un fiato lungo che non avevo.

 

Mi ha permesso di riscrivere la mia storia dall’inizio.

 

 

 

 

Un dramma, e mai una commedia, potrebbe essere il titolo del mio libro, il registro della commedia è rimasto a te.

 

Tu ed Antonio passate indenni in drammi spaventosi e di tutto fate una commedia, per questo è così divertente stare con voi.

 

Vivere con me non è altrettanto divertente.

 

A vivere in una commedia, io ho la sensazione che mi scappi tutto di mano, ma la vita è certo così, lei corre da sola.

 

Ed è in questo correre e dimenticare che è la sua allegria.

 

La mia allegria sta nel ricordare.

                                              

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                            

 

 

                                                XXXVIII

 

 

 

 

 

A me piace raccontare e raccontarmi, tu hai invece un silenzio così severo.

 

A me sembra di vivere in silenzio, è solo dal silenzio che una storia può sorgere.

 

Tu parli di fatti, di quello che succede, chiacchieri, vivi nel rumore, ma la tua intimità è così inviolata che comincia addirittura dal vestito.

 

Dei tuoi vestiti non parli, non parli del tuo corpo, della tua mente, dei tuoi sentimenti.

Anche la tua casa è piena di finestre sempre chiuse.

 

La tua dimensione è la casa, la mia la strada.

Il tuo vivere è segreto, a me sembra essere di vetro, anche se, certamente, è un’illusione ottica.

 

Non c’è niente della mia mente che mi sembra di non poter comunicare.

 

Quando il nostro mondo diventa linguaggio, elaborazione, diventa condivisibile senza sentirsi violati nella propria intimità.

 

Non so spiegarmi, forse c’è qualcosa di sbagliato in me, una mancanza di pudore, che, però, non saprei nemmeno cosa vorrebbe  dire.

 

Quando non so qualcosa del mio essere mi dico che sono psicotica.

Questa diventa la spiegazione per tutto.

Perché è lì pronta.

 

Anche altri malati di mente sono così.

 

Non è che non abbiamo segreti, ma non è segreto quello che lo sarebbe per la maggior parte della gente.

 

Forse perché vivono appartati, fuori delle regole della vita sociale.

 

Forse perché tante parole del vivere comune, in loro, non hanno risonanza.

Vivendo in un piccolo orto nascosto, anche il linguaggio si modifica.

 

Allora possono raccontare quello che altri non confesserebbero neanche sotto tortura.

E tutto è naturale, detto con la massima ingenuità, come potrebbe farlo un bambino piccolo.

 

I mie segreti riguardano gli altri, se mi comunicano che quello che mi dicono è segreto.

Altrimenti non so usare le loro regole.

 

Questa situazione mi fa vivere tutta la mia solitudine.

Mi racchiude in un cerchio che non è condivisibile.

Almeno in una sua parte.

 

Per quanto mi sia avvicinata alla normalità, non sarò mai come i normali.

 

Questo mi dà la nostalgia di un’altra vita che avrebbe potuto essere.

 

Sentirsi rispecchiati in una comunità e poterla rispecchiare.

 

Adesso sogno di poter condividere un mondo più vasto che la ristrettissima cerchia dei miei amici.

 

Sognare non disturba nessuno e a me dà un fiato nuovo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                  XXXIX

 

 

 

 

 

Tu ridi volentieri, quando ridi sei più bella. 

Mario, poi, ride benissimo.

 

Io mi incanto a guardarlo ridere al punto che mi scordo di ridere io, e ride anche spesso, ma raramente succede insieme.

 

Anche Francesca ride molto bene, il suo senso dell’umorismo è quello che mi rimette sempre in pace con lei.

 

Io credo che il ridere sia una delle cose più private che abbiamo.

 

Può sembrare un assurdo perché ci si immagina sempre di ridere con qualcuno, sembra qualcosa solo collettivo, e, se qualcuno ride da solo, è subito visto con sospetto.

 

Ma a me non sembra così.

 

Io rido poco anche quando non sono depressa e, in genere, le cose che fanno ridere gli altri non mi fanno ridere.

 

Anche se quelle poche che mi fanno ridere, fanno ridere anche gli altri.

 

Mi sembra una cosa bellissima quando riesco a ridere, soprattutto se lo faccio con altri.

E’ una sensazione entusiasmante, come se l’aria si riempisse di bollicine di champagne.

 

Ma non succede molto.

 

Mi pare che questo modo di ridere sia un ulteriore segno del mio essere psicotica.

 

Conosco una persona, anche lei psicotica, che ride assolutamente da sola e per cose che neanche io riesco a comprendere.

 

Io sarei solo qualche gradino più vicino ai normali, ma il fenomeno è lo stesso.

 

Forse ridere implica delle capacità simboliche, o forse dipende dal rapporto che hai con l’inconscio.

 

Ridi, se hai una barriera di contatto, un filtro che ti protegge e ti impedisce di vedere, in una battuta, spiattellato il tuo desiderio.

 

Ma se non l’hai, non puoi ridere perché allora, proprio la ragione del riso, il riconoscersi mascherati, sei tu senza sapere che sei tu, ti viene a mancare.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                       XL

 

 

 

 

 

 

Oggi è un altro giorno, prego che sia una buona giornata per te e per me, Mario dipinge, non so come faccia, lavora ore e ore senza stancarsi, senza il bisogno di una parola…

E questo può durare mesi…

 

Ma  adesso ho uno strettissimo rapporto emotivo con il computer, siamo io e lui, non sono più sola, e poi scrivo a te, tu sei qui con me, mi fai compagnia anche se non lo sai.

 

E’ anche l’unico modo di averti, perché a te non piace stare in compagnia e ciacolare.

 

Anche quando hai tempo, ti metti subito a fare delle cose, magari per me, ma il tuo tempo non puoi semplicemente regalarlo per niente, per stare insieme, come se stare insieme fosse una cosa inutile.

 

“ Io e te, tu e me”, questo l’avevo solo con la mamma.

 

 

 

Vedi, tu non ti siedi, per lo stesso motivo per cui io non smetto di scrivere, perché sai che tutto il tuo sbatterti non serve a niente, serve tanto come il mio non sbattermi.

 

Mi dirai : “ Ma almeno ti fa piacere scrivere, come a me piace occuparmi? “

 

Piacere, sì, mi piace, soprattutto mi fa stare meglio, è per questo che lo faccio.

Piacere si avrebbe a fare qualcosa che ne valesse la pena.

 

La mia vita è segnata, e da sempre, ho mai fatto qualcosa che non fosse assolutamente inutile?

 

C’è forse qualcosa di più inutile di una malattia?

 

E una malattia che dura tutta una vita.

 

E quante persone ci sono come me, non solo malati mentali.

 

Queste isole di solitudine e di sofferenza segreta, mi vengono sempre in mente, anche se non le conosco, e mi nasce in cuore una preghiera.

 

Sento queste persone vicine a me e vorrei abbracciarle come fratelli.

 

E’ questo il mio vero mondo comune.

 

Eliano, il fratello della mamma, da così tanti anni malato senza cura, è per questo la persona che sento più vicina al mondo.  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                XLI

 

 

Un malato mentale è impegnato in una lotta tremenda, solitaria, per dare un senso alla sua vita.

 

Non gli serve guardarsi in giro e imitare gli altri.

 

E’ fuori dal loro mondo e lui lo sa benissimo.

 

Può imparare ad imitare l’apparenza dei gesti, delle parole degli altri e nascondere la sua malattia.

 

Ma un senso alla propria vita deve trovarlo da solo.

 

E’ un apprendimento che deve fare senza modelli.

 

 

Sono davvero poche le cose mi hanno permesso di dare un significato alla mia esistenza.

 

Ho avuto la straordinaria fortuna di essere molto curiosa, il mondo e le persone non cessano di incantarmi.

 

Mi sento proprio come quei bestioni del Vico sempre pieni di stupore e meraviglia.

 

Questa è stata una grande risorsa.

 

“Sono sempre di vedetta”, come dice Mario.

 

Osservare mi dà un grande piacere.

Osservare e studiare.

 

E’ un piacere grandissimo, una passione… come tuo marito ha la passione dei cavalli e tu, dei vestiti e dei gioielli.

 

Questo è stato l’aspetto della mia vita che mi ha permesso di sfuggire in parte all’imperativo del dovere.

Per questo sono così grata di aver avuto in dotazione questa curiosità.

 

 

A te questo modo di vivere sembra incomprensibile.

 

Non staresti su un libro neanche con una pistola puntata.

Tu hai bisogno di attività, di fare continuamente delle cose.

Sei instancabile.

 

 

 

La mia vita è stata soprattutto curarmi in tutti i modi possibili.

Le medicine e la terapia.

 

Informarmi sulla malattia, leggere dei libri.

 

Una seduta terapeutica per me non è mai stata  un risultato, ma solo un punto di partenza per un lavoro personale.

Una corso che dava i compiti a casa…

 

Scrivere così tanti quaderni è stato un grande impegno, ma mi è stato molto utile.

 

 

 

Paracelso dice che apprendere era la sua “ Divina amante” e che non ha mai disdegnato di imparare da chiunque, fosse pure un rozzo individuo o un delinquente.

 

Una malato mentale deve vivere imparando, non ha mai finito.

Dalla sua mente, dal terapeuta e da tutti gli altri.

 

Tirarsi fuori da una malattia è una scuola, e una scuola dura.

 

 

 

 

 

Il pezzo più importante della mia “ ricetta per fare una torta”… è stato circondarmi di affetti, di legami che durano nel tempo.

 

E non sempre è stato facile, devi superare incomprensioni reciproche, umori spinosi, visioni del mondo che possono essere opposte.

 

Anche il rapporto con te è stato molto difficile, ma è durato nel tempo.

 

Tu hai un’estrema difficoltà ad accettare chi è diverso da te, soprattutto se questo diverso è tua sorella, qualcuno che ruota intorno al cerchio del tuo io.

Qualcuno che può stridere sulla tua pelle così bisognosa dell’identico.

 

 

La risorsa che più di tutto mi ha permesso di vivere è stato sentire amore e, tutte le volte che è stato possibile, riceverlo.

 

Ho imparato a fare la traduzione del mondo degli altri nel mio linguaggio, l’unico che mi fa sentire amata.

 

Tu ti affanni sui miei vestiti, tra le altre cose, e a me non sembra importante, ma nel mio linguaggio questo tuo affaccendarti diventa pura passione per me.

 

 

Non potrei vivere senza affetti, senza mettermi in discussione, ogni volta, davanti alla verità dell’altro.

E’ il mio modo di crescere e di scoprire il mondo.

Anche se, a volte, tentenno per la sofferenza necessaria.

 

 

“Ah che fatica mi costa

amarti come ti amo…

 

Per il tuo amore mi duole l’aria,

il cuore

e il cappello.” ( Garcia Lorca )

 

Non sono capace di scrivere poesie, ma se potessi scriverei un “ Inno all’amore”, appassionato come quello di Edith Piaf.

 

Il mio tessuto mentale è impregnato di sentimento e morirei se non potessi offrirlo a qualcuno.

 

Questa passione per la vita l’ho ricevuta con il mio codice genetico ed è stato lo strumento indispensabile per tirarmi fuori dalla malattia.

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                    

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