ILARIA DAGNINI BREY :: GIANNELLA CHANNEL.INFO — 4 GIUGNO 2014 ::: Pur sfigurata dalla guerra, ai soldati “aggiustaveneri” l’Italia sembrò bellissima.

 

 

GIANNELLA CHANNEL.INFO — 4 GIUGNO 2014

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Pur sfigurata dalla guerra, ai soldati “aggiustaveneri” l’Italia sembrò bellissima

 

 

testo di Ilaria Dagnini Brey* per Giannella Channel

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twitter sharing buttonPosted on 4 Giu, 2014 in I salvatori dell’arte

Giornalista e traduttrice, Ilaria Dagnini Brey è nata a Padova ma da un quarto di secolo vive a New York (il marito è primo violoncellista alla New York Philharmonic). 

Salvate Venere! La storia sconosciuta dei soldati alleati che salvarono le opere d’arte italiane nella seconda guerra mondiale

 Ilaria Dagnini Brey

Editore: Mondadori
Collana: Le scie
Anno edizione: 2010
In commercio dal: 18 maggio 2010
Pagine: 344 p., Rilegato
21 EURO, PREZZO PIENO

 

Nel 1943, in un mondo sconvolto dalla guerra, ci fu chi si rese conto che in quel conflitto non era in gioco soltanto la vittoria militare, ma un’eredità culturale di inestimabile valore: il patrimonio artistico dell’Europa. I vertici alleati decisero dunque di affidare a un eterogeneo gruppo di storici dell’arte, direttori di musei, architetti e artisti – chiamati formalmente “Monuments Officers”, ma soprannominati ironicamente dalla truppa “Venus Fixers” (aggiustaveneri) – la missione di cercare di impedire che i capolavori dell’arte e dell’architettura europea venissero trafugati, bombardati o irrimediabilmente danneggiati. Ilaria Dagnini Brey, che nella sua ricerca ha avuto accesso ad archivi finora inesplorati, ricostruisce per la prima volta le gesta della task force che operò in Italia, risalendo la penisola al seguito degli eserciti alleati. Competenti, appassionati e pieni di entusiastica dedizione per il compito cui erano stati assegnati, i Monuments Officers si trovarono spesso a lavorare sulla linea del fronte, in condizioni rischiose e con scarsa disponibilità di mezzi. Da Palermo a Napoli, da Montecassino alla Toscana e poi al Norditalia, percorsero centinaia di chilometri ispezionando pievi, chiese, ville e edifici storici, musei e gallerie, localizzarono le opere in pericolo e le trasferirono al sicuro, talvolta in modo rocambolesco.

 

 

 

 

Il suo primo libro è stato Salvate Venere! La storia sconosciuta dei soldati alleati che salvarono le opere d’arte italiane nella Seconda guerra mondiale (Mondadori, 2010). Un volume avvincente frutto di anni di ricerche e di toccanti interviste agli ultimi testimoni: dalle sue pagine sono tratte le immagini che trovate a corredo. Questo eccezionale sforzo divulgativo, che le affida idealmente la primogenitura sul tema dei Monuments men alleati dell’arte italiana, le è valso il premio Rotondi ai salvatori dell’arte, sezione Comunicazione, 2010. Sono onorato di ospitare questo suo testo, scritto appositamente a ulteriore arricchimento del mio nuovo libro Operazione Salvataggio. Le storie degli eroi sconosciuti che hanno salvato l’arte dalle guerre in Italia e nel mondo, Chiarelettere). (s. g.)

monuments-men-Frederick-Hartt

 

Frederick Hartt in piazza della Signoria, nell’estate del 1945, accanto alla sua leggendaria jeep Lucky 13, con la quale aveva percorso tutta la Toscana, compiendo sopralluoghi spesso a ridosso del fronte. Hartt ricevette la cittadinanza onoraria di Firenze per lo straordinario contributo offerto durante la guerra e per l’aiuto portato alla città nei giorni dell’alluvione del 1966. Le sue ceneri riposano sulla collina di San Miniato.

“La pace è magnifica. Ma il lavoro qui, dopo l’Italia, è piuttosto noioso”. Così scriveva Frederick Hartt allo storico dell’arte statunitense Bernard Berenson da Salisburgo nell’ottobre 1945. Per un anno intero, dall’agosto del 1944 al luglio 1945, Frederick Hartt, trentenne storico dell’arte originario di Boston, dottorato con tesi sul manierista Giulio Romano, aveva prestato servizio nell’esercito alleato come ufficiale addetto a una missione speciale: cercare di impedire che i capolavori dell’arte e dell’architettura europea venissero trafugati, bombardati o irrimediabilmente danneggiati. Con altri ventisei compagni d’arme, Fred Hartt era, per usare il nomignolo affibbiato al suo gruppo dagli stessi commilitoni dell’esercito alleato, un “aggiustaveneri” (Venus Fixer).

Hartt era arrivato a Firenze all’indomani del primo ingresso degli alleati a Firenze e quando i quartieri settentrionali della città era ancora in mano tedesca. Accompagnato da un giovane Ugo Procacci, futuro soprintendente delle gallerie fiorentine nel dopoguerra, aveva camminato tra le macerie di Por Santa Maria e via Guicciardini. Ammutolito e sconvolto, aveva contemplato  dal centro del Ponte Vecchio, l’unico ponte fiorentino sopravvissuto alle mine naziste, la distruzione del michelangiolesco Ponte a Santa Trinita e gli scheletri barcollanti di tanti antichi palazzo e torri fiorentine. Eppure a quel paesaggio di rovina risaliva l’inizio del suo amore per Firenze. “Mi sono innamorato di Firenze nell’ora della sua agonia ed è una passione che solo la mia presenza in quella città può placare”, Hartt avrebbe scritto a Berenson all’indomani della fine della guerra.

 

La guerra del tenente Hartt e dei compagni “aggiustaveneri” fu un sogno e un incubo insieme. Un manipolo di storici dell’arte, architetti, artisti e archivisti per tre anni lasciò scrivanie, cavalletti e cattedre universitarie per farsi paladino dell’arte italiana. Sotto la minaccia costante di bombe, mine e cannonate corsero in soccorso di chiese e musei e piazze, ville, palazzi e campanili d’Italia. Anche sfigurata dal passaggio devastante della guerra, a questi ufficiali inglesi e americani l’Italia sembrò sempre bellissima.

 

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Ernest De Wald, docente di arte e archeologia, guidò il reparto dei Monuments Officers, inizialmente considerato con irritazione dal resto dell’esercito alleato, che giudicava il recupero delle opere d’arte secondario rispetto alla salvaguardia delle vite dei soldati e all’assistenza dei civili.

 

L’avventura degli ufficiali addetti ai monumenti iniziò all’indomani degli sbarchi alleati in Sicilia, nel luglio 1943. All’inizio si trattò solo di un paio di uomini. Il capitano inglese Edward Croft-Murray, curatore del gabinetto delle stampe del British Museum nella vita civile, poteva a stento contenere l’eccitazione alla vista della Sicilia dall’aereo militare  che lo portava dal Nord Africa. “Trapani, Trapani, vedi?”, esclamò scuotendo l’amico Lionel Fielden che gli sonnecchiava accanto. Aprendo gli occhi, Fielden vide “una mezzaluna di casette imbiancate a calce che sorgevano dal mare, colline coperte di lavanda e tetti rosso ruggine, mentre i rintocchi di campane lontane riecheggiavano nel cuore. Non c’è paese al mondo, per me”, avrebbe scritto Fielden, “che abbia la bellezza mozzafiato dell’Italia”.

 

Nei giorni precedenti l’arrivo in Sicilia, Croft-Murray aveva preparato l’amico Fielden alle bellezze folgoranti che li aspettavano in Sicilia. Il “Baroccone”, come lui stesso si autodefiniva, perché era grosso e adorava il Barocco, portava occhiali dalla sottile montatura d’argento, camminava con un bastone da passeggio fischiettando arie di Mozart ed era, nella definizione di Fielden, “Serpotta-dipendente”.

Ad aspettarli trovarono Palermo sventrata da mesi di bombardamenti. Tra chiese scoperchiate e palazzi barcollanti però, gli stucchi delicati dello scultore Serpotta erano intatti, come se le bombe non avessero osato sfiorarli.

 

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L’ufficiale americano Deane Keller fu spesso il primo tra i suoi colleghi a entrare nelle città liberate dagli Alleati nel Lazio, in Toscana e, nella primavera del 1945, in tutta l’Italia settentrionale. Eseguì centinaia di sopralluoghi di monumenti, chiese, pievi e monasteri non di rado situati sulla linea del fronte.

 

L’ingresso a Napoli, liberata dagli eserciti alleati l’1 ottobre 1943, non fece che esacerbare il contrasto tra la bellezza paesaggistica e artistica dell’Italia e la realtà straziante della guerra. “Ho fatto chilometri a piedi e ho visto tanta bellezza e tanta sofferenza”, il capitano Deane Keller scrisse in quei giorni alla moglie. Per Keller, che era professore di pittura e disegno all’università di Yale, Napoli era piena di misteriosa malia e carica di forza evocativa. Se la censura militare gli impediva di indicare con precisione i luoghi in cui si trovava, le sue lettere alla moglie, che viveva nel Connecticut, erano pieni di riferimenti storici, letterari, artistici e mitologici. “Oggi sono andato in un posto con una vista straordinaria e sono rimasto a guardare e ad assorbire quell’atmosfera antica per una quarantina di minuti… Pensando a Roma e a Virgilio, ho visitato un luogo che è uno straordinario fenomeno geologico… Poi, al tramonto, ho raccolto un’orchidea selvatica, che unisco a questa lettera… E’ stata un’esperienza affascinante, vedere e sentire il passaggio della storia, degli uomini e delle cose; un’esperienza che fa bene all’anima”.

 

L’avventura di Deane Keller, Fred Hartt, Croft-Murray e gli altri “aggiustaveneri” che risalirono la penisola, dalla Sicilia alle Alpi, al seguito dell’esercito alleato, fu un misto di passione e orrore, in tensione continua tra l’esaltazione e lo scoramento. Keller risalì il Lazio e il versante occidentale della Toscana con la Quinta Armata Americana. A bordo di una jeep senza tetto, parabrezza e sospensioni e guidata da un autista da lui definito “stupido”, il capitano Keller visitò dozzine di paesi e città; da Volterra a Tarquinia e fino a Pisa, la sua fu una corsa contro il tempo, per arrivare al più presto a portare i primi soccorsi a monumenti e opere d’arte colpiti dalla bombe o dal fuoco incrociato delle artiglierie dei due eserciti. Anche nei momenti più affannosi però, lo sorprendeva una particolare caratteristica dell’Italia, “un senso quasi mistico”, come scrisse alla moglie, “di grande tranquillità”.

Lungo il suo frenetico percorso, condivise pasti con i contadini del luogo (per poi puzzare d’aglio per giorni), bevve vino da messa con un prete di paese o tè, preparato in una latta di benzina, con i commilitoni inglesi. Intenso come la sua avventura fu il suo rapporto con gli italiani, che amava e capiva, forse fin troppo bene. “Dio quanto parlano gli italiani… Io, purtroppo, qualche volta perdo la pazienza, ma parlano tutti insieme ed è impossibile prendere delle decisioni”, scriveva alla moglie. Ma poi ci ripensava: “E’ buffo, con tutte le cose che si possono dire contro gli italiani, uno poi finisce sempre per trovarli simpatici”.

 

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Come ufficiale addetto ai monumenti del Veneto, l’architetto inglese Basil Marriott si occupò del ripristino di edifici storici colpiti dai bombardamenti o dal fuoco delle artiglierie, dedicandosi in particolare al restauro del tetto della basilica e dei molti palazzi palladiani di Vicenza.

Nella Toscana orientale, Fred Hartt conduceva una parallela guerra per l’arte. A bordo della leggendaria jeep “Lucky 13” visitò San Gimignano, l’Impruneta, Arezzo, ma si spinse anche nel cuore dell’Appennino per raggiungere il santuario della Verna e l’Eremo di Camaldoli; per raggiungere il castello di Poppi nel Casentino si dovette fermare, ai primi di settembre 1944, davanti a un cartello che diceva “Questo è il fronte”. Ci riprovò qualche giorno dopo, però, e riuscì a ispezionare il castello.

Nel luglio e agosto del ’44, le giornate del tenente Hartt furono una corsa frenetica per raggiungere i depositi di opere d’arte create dei soprintendenti fiorentini nei primi due anni del conflitto prima che vi arrivassero squadre dell’esercito tedesco in ritirata. Il rischio di viaggiare su strade minate per raggiungere depositi situati pericolosamente vicini alla linea del fuoco fu spesso riscattato, per Hartt, da incontri ravvicinati molto speciali. Nel garage della villa seicentesca di Torre a Cona, tra cacciaviti e taniche di benzina, il giovane storico dell’arte americano si trovò faccia a faccia con le sculture michelangiolesche delle tombe medicee di San Lorenzo e a separarli erano solo le assi delle casse di legno con cui il soprintendente Giovanni Poggi aveva trasportato le statue da Firenze nel 1942.

Per oltre un mese, finché infuriava la battaglia per Firenze, Fred Hartt visse a Montegufoni, il castello medievale costruito dagli Acciaioli e che durante il tempo di guerra era di proprietà della famiglia di intellettuali inglesi Sitwell.

E forse fu durante i pasti preparati da una cuoca del luogo, una fusione ispirata di razioni dell’esercito americano e verdure dell’orto, serviti intorno alla grande tavola del castello che Hartt concepì la passione per la buona cucina che tanti amici italiani ricordano di lui.

 

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L’architetto Roderick Eustace Enthoven fu tra i primi ufficiali ad accorrere in soccorso di Firenze, devastata dalle mine tedesche. Trasferito poi al Nord, si occupò degli interventi per salvare i monumenti di Piemonte, Liguria e Lombardia.

All’indomani della liberazione di Firenze e con lo spostarsi del fronte verso il settentrione d’Italia, molti degli ufficiali addetti ai monumenti raggiunsero, nella primavera del ’45, le grandi città del nord dilaniate da anni di bombardamenti. Roddy Enthoven, architetto inglese, si occupò di Torino e di Genova; del soprintendente Mesturino scrisse, “competente, bohemian, con una forte tendenza all’inerzia”.

Croft-Murray fu a Bologna e Deane Keller fece la spola tra Milano, Torino e Genova ma soprattutto si occupò del recupero e rientro a Firenze di seicento opere d’arte trafugate dai nazisti.

Basil Marriott, architetto inglese, fu di stanza a Padova, Venezia e Vicenza. Di lui, i famigliari ricordano che “rimise il tetto” alla Basilica Palladiana di Vicenza e ricollocò i cavalli di bronzo a San Marco. “E’ vero o è una fanfaronata di soldato?” si chiedeva qualche tempo fa un nipote, perché effettivamente il passare degli anni ha avvolto l’avventura degli “aggiustaveneri” di un’aura romantica. Certamente questo fu il sapore che l’accompagnò per sempre nel ricordo di Hartt che disse a un gruppo di studenti americani negli anni Ottanta: “Se pensate che Firenze sia bella adesso, avreste dovuto vederla allora”.

 

monuments-men-Ilaria-Dagnini-BreyIlaria Dagnini Brey, scrittrice padovana trapiantata a New York, la prima ad aver raccontato la storia sconosciuta dei soldati americani e inglesi che salvarono opere d’arte durante la Seconda guerra mondiali.

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1 risposta a ILARIA DAGNINI BREY :: GIANNELLA CHANNEL.INFO — 4 GIUGNO 2014 ::: Pur sfigurata dalla guerra, ai soldati “aggiustaveneri” l’Italia sembrò bellissima.

  1. Donatella scrive:

    Incredibile e benefica questa storia, di cui in genere non si è mai saputo nulla.

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