MAURO DE BONIS, ORIETTA MOSCATELLI, IL GEMELLO DIVERSO: APPUNTI PER UN RITRATTO DI VLADIMIR VLADIMIROVIC PUTIN — LIMESONLINE DEL  18 DICEMBRE 2014

 

 

LIMESONLINE DEL  18 DICEMBRE 2014

https://www.limesonline.com/cartaceo/il-gemello-diverso-appunti-per-un-ritratto-di-vladimir-vladimirovic-putin

 

 

IL GEMELLO DIVERSO: APPUNTI PER UN RITRATTO DI VLADIMIR VLADIMIROVIC PUTIN

 

 

 

Prime Minister Vladimir Putin addresses the crowd at a Night Wolves' bike show in CrimeaPrime Minister Vladimir Putin addresses the crowd at a Night Wolves’ bike show in Crimea

[Photo credit © Jerome Levitch/Corbis]

 

 

 18/12/2014

Il leader del Cremlino si identifica con il suo paese. La formazione sotto la stella dell’Urss. Il Kgb è per sempre. La banda di San Pietroburgo. La sconfitta di Majdan: umiliato e offeso dall’agognato Occidente. La solitudine del capo (malato?) e il ‘cerchio magico’.

 

di Mauro De Bonis, Orietta Moscatelli

Pubblicato in: LA RUSSIA IN GUERRA – n°12 – 2014

RUSSIA, UCRAINAALEXEJ NAVAL’NYJ, SILVIO BERLUSCONI, VLADIMIR PUTIN

Chi lo conosce ne è più che sicuro: Vladimir Putin è di pessimo umore, arrabbiato come non mai. Giunto al quindicesimo anno di potere nel paese più vasto del mondo, contando anche il periodo in carica come primo ministro, certamente non si aspettava di dover subire uno smacco come quello ucraino. La perdita del controllo su Kiev, fonte battesimale della civiltà e dello Stato russo, e su gran parte dell’Ucraina, che da sempre Mosca considera la sorella minore.

 

Tutto questo proprio mentre l’immagine del leader del Cremlino si avviava verso una consacrazione planetaria come uomo non solo di guerra ma anche di conciliazione e buon senso. Il suo nome era stato appena inserito nella lista dei possibili candidati al Nobel per la pace, la sua diplomazia aveva da poco ottenuto un eccellente risultato nella risoluzione del problema delle armi chimiche siriane. Infine, le Olimpiadi invernali organizzate con successo a Soči, nel Caucaso russo, presentavano Putin e il suo paese come ospite affidabile e ricco di storia. Ma ecco infiammarsi la piazza di Kiev

 

Una rivolta a orologeria che ha scosso l’Europa e alcune certezze secolari della leadership d’oltre cortina, liquidando il progetto di integrare l’Ucraina nell’Unione Eurasiatica, che partirà senza il fondamentale apporto del parente slavo più prossimo. Una sollevazione che ha scavato un fossato lungo nuovi e confusi confini tra la Russia e l’Unione Europea – peraltro non proprio coesa sul metodo migliore per approcciare il nemico ritrovato, su come far pagare a Putin la (ri)presa della Crimea e l’esibita propensione a voler contare nel mondo come potenza di primo rango.

 

Ma Putin è furioso anche con se stesso. Per non aver potuto/saputo in tanti anni alla guida della Federazione mettere in sicurezza il vulnerabile fianco occidentale del giardino di casa. Per aver perso la culla della storia patria. Per non aver tenuto a debita distanza antichi e nuovi rivali europei e non.

 

Nel silenzio del suo studio al Cremlino, immaginiamo un cupo Vladimir Vladimirovič ripensare agli errori compiuti, ripercorrendo le tappe della sua scalata al potere. A partire dagli anni della misera infanzia leningradese, svezzato a soviet e smetana, poi alla scelta di entrare nel Kgb covata fin dall’adolescenza, agli anni trascorsi da spia nella Germania dell’Est. Avrà ricordato il ritorno in patria dopo la caduta del Muro e la scalata al potere politico, avviata alla corte del sindaco di San Pietroburgo, Anatolij Sobčak, quando assieme alla sua cerchia cercò di evitare che El’cin e la sua famiglia svendessero la Federazione e i suoi tesori agli occidentali e a pochi famelici oligarchi.

 

Vladimir Putin incontra alcuni parenti delle vittime a Vidyayevo (22 agosto 2000).

Kremlin.ru

L’INCIDENTE –https://it.wikipedia.org/wiki/K-141_Kursk

 

 

 

Deve aver pensato all’impotenza sua e del paese intero davanti ai corpi senza vita dei marinai del Kursk, il sommergibile affondato pochi mesi dopo il suo insediamento al Cremlino. Avrà rivisto scorrere davanti agli occhi le immagini delle rivolte che avevano colorato le piazze di paesi ex sovietici per strapparli alla supervisione russa. Gli anni tremendi della guerra cecena e delle bombe seminate dal terrorismo islamista. Con il conflitto georgiano e i suoi carri armati fermati a pochi passi da Tbilisi. Con il progetto di scudo antimissile occidentale, considerato da Mosca una minaccia strategica.

 

Avrà rimuginato sul pugno di ferro e sulla «democrazia sovrana» con cui è riuscito a tenere a bada le (rare) pulsioni liberali del suo popolo, abituato da sempre a stringere denti e cinghia. Avrà ripensato ai suoi colleghi di comando – con quali di loro dovrà fare i conti quando un giorno passerà lo scettro del potere. Ai suoi pochi amici fuori dalla Russia e ai tanti nemici. E a tutti i personaggi ai quali è stato paragonato, da Hitler a Stalin passando per Satana.

 

Soprattutto però deve aver riflettuto sulle aperture agli Stati Uniti e sulle richieste di cooperazione lanciate all’ex nemico prima, durante e dopo l’11 settembre 2001. Tutto inutile, visto che Washington si è sempre rifiutata di considerarlo un vero partner. E oggi, dopo tre lustri di potere putiniano, lo considera un nemico.

 

Costringendolo a guardare a est, verso una Cina sempre temuta e considerata, in fondo, come un’altra, inconciliabile civiltà, opposta alla grande famiglia cristiana di cui la Russia si sente parte accanto ad America ed Europa, che invece la considerano aliena. Relegandola per sempre nel ruolo di gemello diverso. Comunque non integrabile nel club euroatlantico. Un rifiuto che stringe più che mai i russi attorno al leader, paladino di una terra immensa da difendere contro le minacce della Nato. Un impero oggi amputato di una sua parte vitale: quell’Ucraina per la cui perdita Putin rischia di passare alla storia.

 

Malato o non malato, spietato e ricchissimo, il capo non dorme più sonni tranquilli. Ma è tempo di lasciarlo nella penombra del suo studio al Cremlino mentre rimugina su cosa avrebbe potuto fare o non fare per evitare lo smacco ucraino.

 

 

Putin chi?

Quando Vladimir Vladimirovič viene alla luce, il 7 ottobre 1952 nell’allora Leningrado, a regnare sull’Unione Sovietica c’è ancora Josif Vissarionovič Džugašvili, in arte Stalin. Lo stesso dittatore che di lì a pochi mesi avrebbe ceduto lo scettro del potere a Khruščëv solo perché impossibilitato a non defungere. Lo stesso terribile personaggio per il quale il nonno di Putin, Spiridon Ivanovič, aveva servito come cuoco, così come prima aveva fatto con Lenin.

 

L’attuale presidente russo nasce dunque in una cornice perfettamente sovietica. Con il padre Vladimir Spiridonovič, che aveva prestato servizio combattente nell’Nkvd (antenato del Kgb), la mamma Maria Ivanovna Šelomova, casalinga più o meno a tempo pieno, e la loro stanza in kommunalka (le tremende coabitazioni con cui Lenin aveva risolto in un colpo solo il problema della mancanza di alloggi e la necessità del controllo totale sulla popolazione, appaltandolo a zelanti portinaie), l’infanzia di Vladimir Vladimirovič trascorre in povertà. In questo clima forgia il carattere a sua detta da «teppista», difendendo se stesso e i suoi amici da bulli e topi, nel giardino di un gelido palazzone di Leningrado. Questa l’immagine dei primi anni di vita di Putin, consegnata da lui stesso alla storia in un’autobiografia ufficiale 1.

 

Sulle origini del suo cognome e dei suoi antenati risulta più di una versione. In un articolo del 2002 la Pravda riporta alcune «sensazionali» scoperte sul mistero delle radici familiari del presidente in carica, che secondo alcuni studi affondano nella regione russa di Tver’ 2. Secondo tale versione tutto risale alla fine del XVII secolo, con il capostipite Jakim Nikitič che di cognome fa Putin. Un servo della gleba.

 

O invece, come spiega ancora il giornale moscovita, il leader del Cremlino discende direttamente da Mikhail, principe di Tver’ e santo della Chiesa ortodossa di Russia. Oppure, secondo altre fonti, da un certo Vlad Putine, ufficiale moldavo alle dipendenze di Pietro il Grande 3. Infine, ci siamo anche noi. Perché l’amicizia tra Putin e Berlusconi è così profonda e duratura? Semplice, perché il presidente russo ha sangue italiano nelle vene, precisamente veneto, della provincia di Vicenza. Basta spostare l’accento al suo cognome dalla u alla i per farne un padano.

 

Sulle origini italiche di Vladimir Vladimirovič alcune testate russe raccontano di avi del leader che a fine Ottocento lasciano l’Italia per raggiungere la Russia e lavorare alla costruzione della Transiberiana 4. A confermarlo i tanti Putìn presenti nella provincia veneta. Secondo alcune fonti, il presidente russo non solo è a conoscenza delle sue origini italiane ma ha anche partecipato, in incognito, al funerale di un suo prozio a Costabissara.

 

Lo stesso accolto più volte al Cremlino, dove, giurano, il presidente ama circondarsi di cibo e cuochi veneti 5. Anche il Veneto Serenissimo Governo è sulla stessa lunghezza d’onda e nel congratularsi con il leader russo per il successo del suo partito Russia Unita alle elezioni per la Duma del 2007 conclude il comunicato spiegando di essere «orgoglioso che il presidente Vladimir Putin abbia le sue origini nella nostra amatissima Patria Veneta» 6.

 

Ma al di là delle fantasmagoriche versioni sugli antenati, anche la sua discendenza diretta è messa in dubbio. Secondo quanto riportato dalla testata georgiana Alia nel febbraio del 2000, la madre biologica di Putin non è quella citata dallo stesso presidente, ma una certa Vera Nikolaevna Putina, nativa della regione russa di Perm’, poi trasferitasi in Georgia. Qui, nel 1950, mette al mondo il piccolo Vladimir, da un tal Platon Privalov. Lasciato poi alle cure dei genitori di lei, il bambino viene da loro affidato alla famiglia «ufficiale», a Leningrado, come sosterrà poi il giornale russo Sevodnja 7.

 

 

Da San Pietroburgo a Mosca passando per il Kgb

 

Una cosa è certa: il leader russo è figlio della Leningrado uscita massacrata dall’assedio nazista del 1941-44. Quasi mille giorni di sangue e fame con oltre un milione di morti, vissuti dai suoi e raccontati al piccolo Vladimir. Una storia di morte e di coraggio che può aver pesato non poco sulle scelte future del nostro. Sulla decisione presa in piena adolescenza di entrare un giorno a far parte del Kgb. Di un gruppo di uomini che la grande maggioranza dei russi e dei sovietici considerano in quegli anni eroi pronti al sacrificio per difendere il paese. Agenti senza macchia e senza paura, avanguardia oscura e affascinante contro i nemici esterni e interni dell’Urss.

 

Così Putin si presenta un giorno, appena diplomato e pronto per l’università, in uno dei punti di reclutamento per agenti più o meno segreti. Viene ascoltato e rispedito a casa con il consiglio di laurearsi. Poi nel caso se ne riparlerà. Vladimir segue alla lettera il suggerimento e nel 1970 si iscrive alla facoltà di legge dell’Università Statale di Leningrado, da dove uscirà laureato in diritto internazionale cinque anni più tardi. Qui incontra il professor Anatolij Sobčak, suo docente e relatore, poi sindaco dell’ormai San Pietroburgo e personaggio chiave nello svolgimento della carriera politica del leader russo.

 

Nel 1976 Putin riesce finalmente a coronare il sogno covato fin da bambino e a entrare nel Kgb. Corsi di addestramento, insegnamenti di lingua tedesca e inglese. Inquadramento nel controspionaggio, lunghi anni di pratica domestica e poi via, oltre confine. A Dresda, nella Germania dell’Est, la Repubblica Democratica Tedesca satellite di Mosca. Dove arriverà armi e bagagli nel 1985 con la moglie Ljudmila e la prima figlia Marija (la seconda Katerina nascerà l’anno successivo in terra tedesca). Qui Putin è molto vicino al nemico. Lo studia, lo osserva, lo valuta. Assiste, impotente, alla caduta del Muro e del regime. È ora di tornare in patria.

 

Lo fa immediatamente, richiamato a Leningrado dai suoi superiori. Qui entra nuovamente all’Università, questa volta come assistente del rettore, per poi passare nell’ufficio di Sobčak, lanciato verso la carica di primo cittadino. Fresco di dimissioni dal Kgb, a Putin viene affidato dal nuovo sindaco di San Pietroburgo il dipartimento per le Relazioni economiche con l’estero. Alla corte del sindaco «riformatore» incontrerà molti dei suoi attuali e più stretti collaboratori. Fra gli altri, Aleksej Miller, oggi a capo del gigante energetico Gazprom, Igor’ Sečin, presidente della compagnia petrolifera Rosneft’ e già vice primo ministro – figura di spicco dei cosiddetti siloviki, gli uomini dell’ex Kgb alla corte di Putin. E un altro giovanotto dalla futura brillante carriera, Dmitrij Medvedev, già presidente e attuale premier della Federazione Russa 8. Un gruppo piuttosto coeso, che lascerà il municipio di San Pietroburgo per fare rotta verso Mosca quando Sobčak perderà le elezioni, nel 1996.

 

L’immensa struttura del Kgb regge alla fine dell’Urss. Le sue capillari ramificazioni sono riattivate, pronte, assieme a parte del potere oligarchico, burocratico e militare, a riprendere in mano il potere e le sorti del paese. Se si considera che nel 2001 la classe politica russa è composta per il 58,3% di personaggi legati ai servizi segreti e che a fine decennio l’insieme tra uomini di governo, grandi imprenditori e burocrati è per il 78% legato all’Fsb 10, l’erede del Kgb, si può capire come la (ri)conquista sia andata a buon fine. Del resto, come ebbe a dire lo stesso Putin qualche anno più tardi: «Un agente del Kgb non è mai ex» 11.

 

Putin entra così nelle stanze del potere dalla porta principale. Il suo gruppo deve aver lavorato bene per riuscire a mettere sotto pressione un presidente El’cin avviato verso una lenta agonia politica. Al Cremlino Vladimir Vladimirovič diventa vice capo del dipartimento per la Gestione delle proprietà presidenziali. Un posto strategico da dove controllare le mosse della famiglia del leader e della cerchia di oligarchi che ad essa fanno capo. I «ragazzi di San Pietroburgo» sono ormai lanciatissimi e due anni più tardi Putin viene chiamato a ricoprire la carica di capo dell’Fsb. Nel 1999 diventa segretario del Consiglio di Sicurezza, poi primo ministro e infine, poco prima che il secolo finisca, presidente ad interim della Federazione. È fatta. Di li a poco la Russia osserverà attonita la nascita della stella Putin e la caduta rovinosa del «Corvo Bianco» El’cin che l’aveva portata al disastro.

I non molto favolosi anni Novanta

 

Nel suo viaggio di qualche anno fa sulla Transiberiana, Luciana Castellina racconta di aver colloquiato amabilmente con uno scrittore russo che le riportava la risposta di Putin alla domanda su cosa preferisse leggere durante il tempo libero: «Mi godo il tempo libero» 12. L’ex spia non sarà un topo di biblioteca, ma prima di aprirsi la strada verso il Cremlino, era tornato sui libri. Solo il tempo necessario per presentare e discutere una tesi che verte, profeticamente, sul contributo delle risorse naturali allo sviluppo dell’economia della regione di San Pietroburgo 13. Il lavoro, che per alcune parti sembra copiato di sana pianta da un precedente studio americano 14, non è facilmente accessibile ma viene ripreso dall’ormai prossimo presidente russo nel 1999 in un articolo uscito sul giornale dell’Istituto minerario di San Pietroburgo, lo stesso della tesi.

 

Qui Putin applica le sue convinzioni all’intera Federazione Russa. Quasi un manifesto di quella che sarà la linea guida della sua futura presidenza: puntare sulle risorse naturali, riportare il settore energetico sotto il controllo dello Stato e creare grandi società statali per competere con le corporations occidentali. Solo in questo modo la Russia potrà uscire dalle paludi economiche e strategiche in cui El’cin l’ha lasciata.

 

Gli anni successivi alla caduta dell’impero sovietico sono assai bui. Iniziato con molte speranze e poche convinzioni su come dare al paese una forma democratica e un’economia che funzioni, il decennio prosegue nella crescente sfiducia popolare verso il presidente El’cin, l’uomo che ha cancellato l’Urss dalla carta geografica. Se si considera che tra il 1988 e il 1996 la produzione di petrolio crolla dagli 11,4 milioni di barili al giorno ai 6 15, si ha un’idea di come ci si stia avviando verso la catastrofe.

 

Passeggiando per Mosca in quegli anni trovi a ogni angolo di strada file di vecchi e vecchine che tentano – spesso invano – di vendere qualcosa. Le pensioni non vengono pagate, spesso nemmeno gli stipendi. Tutti cercano di accaparrarsi il voucher promesso dal governo, con il quale ognuno può iniziare una propria attività. Frotte di esperti e specialisti occidentali nel settore delle privatizzazioni e del libero mercato fanno a gara a dare consigli agli spaesati responsabili del Cremlino e del parlamento. Megadiscoteche in stile nostrano aprono in ogni dove. Casinò e negozi d’abbigliamento di gran lusso spuntano come funghi. Roba da ricchi. Merci e locali appannaggio dei primi paperoni russi e dei loro codazzi

 

 

parlamento russo

4 ottobre 1993 — fonte IL POST

 

Agli altri tocca assistere alla rapida fine del sogno di libertà, prosperità e democrazia. Per entrare in un incubo: nell’ottobre 1993 il presidente El’cin prende a cannonate la Casa Bianca di Mosca (sede del parlamento russo) con tutto il parlamento asserragliato dentro. Il numero delle vittime degli scontri e di quelli della sera prima alla torre della tv di Ostankino non verrà mai determinato. Ma dopo quel sangue nel giro di pochi mesi inizia a scorrerne altro.

Questa volta lontano da Mosca, nel Caucaso russo, precisamente in Cecenia.

 

Caucaso del nord: la Cecenia e le altre tormentate repubbliche della  federazione russa: la politica europea tra dipendenza da gasdotti e omicidi  dimenticati di giornalisti | Geograficamente

MAPPA, DA : GEOGRAFICAMENTE– GROZNY E’ LA CAPITALE DELLA CECENIA

 

El’cin, fresco primo presidente della nuova Russia, esorta le entità che sono rimaste a comporre la Federazione a prendere tutta l’indipendenza che desiderano. Alcuni non se lo fanno ripetere due volte.culi neri di Groznyj si staccano dalla Russia e per rimetterli in riga il Cremlino è costretto a usare la forza. Inizia una guerra che Mosca riuscirà anche a perdere, aggiungendo agli occhi di un popolo russo geloso del suo impero il danno alla beffa.

 

 

Khasavyurt Climate, Weather By Month, Average Temperature (Russia) -  Weather Spark

 

Il 12 maggio 1997 a Khasavjurt, nella repubblica caucasica del Daghestan, si firma l’armistizio che stabilisce le modalità del ritiro russo ma che rimanda al 2001 la decisione su quale status assumerà la Cecenia.

 

Subito dopo la Russia viene scossa da una crisi economica e finanziaria che la porta sull’orlo del fallimento. Nell’agosto 1998 centinaia di migliaia di russi vedono evaporare i loro pochi risparmi. Nella capitale e nel resto della Federazione regna la disperazione, mentre se la godono i 21 oligarchi che in quel periodo detengono l’82% dell’intero patrimonio industriale nazionale 16. Sembra la fine, e per il presidente in carica sicuramente lo è. Di lì a poco Putin e la sua squadra riusciranno a fare breccia nel Cremlino.

 

 

Vladimir Vladimirovič avrà subito vita facile alla guida del paese perché percepito dall’opinione pubblica come alternativa a El’cin e ai suoi disastrosi anni al potere. Putin tornerà spesso sugli anni Novanta, paradigma di come non bisogna governare la Russia. Tornerà sull’umiliazione subita in Cecenia e sulla debolezza dello Stato, causa principe dei disastri di quel periodo. Sentiamolo nel discorso che tiene nel 2005 davanti all’Assemblea Federale: «Il collasso dell’Unione Sovietica è stata la maggior catastrofe geopolitica del secolo». E spiega: «Per la nazione russa fu un vero dramma. Decine di milioni di nostri concittadini e compatrioti si sono ritrovati fuori dal territorio russo. E l’epidemia della disintegrazione ha infettato la Russia stessa».

 

E tornando agli anni Novanta: «L’intervento dei terroristi e la capitolazione di Khasavjurt hanno minato l’integrità del paese. Gruppi di oligarchi hanno preso il controllo assoluto dell’informazione e se ne sono serviti solo per i loro interessi. La povertà della popolazione era concepita come normale. E tutto sullo sfondo di una drammatica crisi economica, della finanza instabile e della paralisi sociale» 17.

 

La prima volta

 

Vladimir Putin è già primo ministro quando l’estate russa del 1999 è squarciata da una catena di attentati che mietono centinaia di vittime tra gli abitanti dei condomini fatti saltare in aria a Mosca e nel Sud del paese. La responsabilità è subito assegnata ai terroristi/separatisti ceceni, il che – sommato a quanto sta accadendo in Daghestan, con l’incursione di battaglioni di guerriglieri islamisti – convince il neo premier a ordinare bombardamenti sulla Cecenia. È il 23 settembre e solo qualche giorno più tardi le truppe russe entreranno nella piccola repubblica separatista.

 

Inizia così la seconda guerra russo-cecena. A condurla non è il presidente El’cin, malato e messo da parte, ma lo stesso primo ministro Putin, che guida le operazioni e si presenta a festeggiare il Capodanno con i suoi soldati che combattono nel Caucaso. La sua popolarità fa un passo da gigante. L’onta di Khasavjurt sta per essere cancellata e la Federazione salvata dalla possibile disintegrazione. Putin non è più uno sconosciuto. Terrorismo e guerra lo presentano alla platea russa, che ne apprezza da subito l’autorevolezza e la volontà di rimettere le cose in ordine.

 

Due temi che utilizzerà ancora da primo ministro per definire la condotta che intende adottare in politica estera una volta arrivato al vertice del potere. Così nel novembre di quell’anno, a guerra cecena in corso e terrorismo attivo nel paese, Vladimir Vladimirovič scrive un articolo per il New York Times dal titolo «Why We Must Act», nel quale proprio perché tiene a cuore i rapporti con gli Stati Uniti intende spiegare le ragioni che hanno portato alla guerra cecena e allertare gli americani su come atti di terrorismo legati a forze esterne organizzate per la creazione di uno Stato islamico possano colpire anche loro. Putin ricorda che gli attentatori alle ambasciate statunitensi in Africa e al World Trade Center hanno appoggi nel Caucaso e che lo stesso Osama bin Laden è dietro ai finanziatori dei ribelli ceceni. «Il terrorismo oggi non conosce frontiere», chiarisce il premier russo e spiega che a malincuore si è deciso per l’intervento armato solo per liberare la repubblica separatista da quanti minacciano la sicurezza della Federazione. «Questo è il nostro obiettivo in Cecenia», conclude, «e siamo determinati a raggiungerlo. E la comprensione dei nostri amici all’estero sarebbe utile»18.

La ricerca di un rapporto di collaborazione con Washington contro il comune nemico terrorista è una delle chiavi che Putin cercherà di utilizzare più avanti per aprire la porta di un’alleanza strategica con gli Stati Uniti.

 

Intanto però bisogna prendere il Cremlino e cominciare a rimettere a posto le cose in casa propria. Già capo dello Stato ad interim, Vladimir Vladimirovič vince le elezioni presidenziali del marzo 2000, dopo la definitiva uscita di scena di El’cin. È lui adesso il padrone e subito vara una legge che evita al predecessore e famiglia ogni possibilità di finire in galera. Era nei patti, e Putin li rispetta. Il 13 maggio, ad appena quattro giorni dal giuramento come secondo presidente della nuova Russia, firma un decreto che divide l’intera Federazione in sette distretti, ognuno con un responsabile scelto direttamente dal Cremlino. Putin intende così riportare sotto il ferreo controllo dello Stato tutti i soggetti federati ed evitare che i vecchi governatori continuino a dettarvi legge.

 

Poi è la volta degli oligarchi arricchitisi negli anni Novanta. Berezovskij e Gusinskij sono costretti a fare le valigie e a trasferirsi all’estero. Li seguiranno in tanti, portando con sé buona parte dei loro capitali. Molti capiranno il vento e si sottometteranno al nuovo ordine. Questi potranno mantenere quanto racimolato durante gli anni della privatizzazione selvaggia e criminale dei vecchi asset sovietici, ma dovranno pagare le tasse e rimanere lontano dalla politica e dalle stanze dei bottoni. I centri del potere cambiano rapidamente e l’informazione, fino ad allora controllata dai magnati elziniani, passa alla squadra di Putin.

I «ragazzi di San Pietroburgo» che lo seguono al Cremlino gestiscono le compagnie petrolifere e gasiere, strategiche per ridare fiato all’economia russa. Le risorse energetiche, come da manifesto putiniano, tornano sotto il controllo statale. Per chi non vuole sottomettersi o è in procinto di vendere i propri pozzi a compagnie straniere, peggio se americane, scattano le manette. Il primo e più illustre oligarca a farne le spese è Mikhail Khodorkovskij. Il proprietario del gigante energetico Jukos viene rinchiuso nelle patrie galere perché vuole prendere il posto di Putin al Cremlino. E perché l’ex attivista del Komsomol (l’organizzazione giovanile comunista sovietica) e oligarca della prima ora sta vendendo la sua compagnia alla ExxonMobil 19.

Nel febbraio 2003 la sentenza del presidente russo: «Da quell’uomo ho mangiato più polvere del necessario»20. A differenza di altri importanti defenestramenti, quello di Khodorkovskij assume una risonanza planetaria e una pronunciata sfumatura geopolitica, soprattutto fuori dalla Russia, in quell’Occidente che inizia a dipingere l’ex oligarca quasi come un martire. È soprattutto la stampa americana ad abbracciare la causa del magnate incarcerato. Mosca e Washington sono ai ferri corti. La linea della Casa Bianca è allontanare sempre più la Russia dal suo giardino di casa – le ex repubbliche sovietiche dove il Cremlino tenta di ripristinare l’antica influenza – e spingere verso i confini russi l’allargamento dell’Unione Europea e della Nato. Putin intende resistere in ogni modo, dopo aver tentato invano di costruire un’alleanza con gli americani contro il comune nemico terrorista.

 

Si è da poco consumato il massacro dell’11 settembre quando Vladimir Vladimirovič chiama il collega Bush per esprimergli tutta la solidarietà del popolo russo.

Il suo sarà il primo telegramma ad arrivare alla Casa Bianca: «Comprendiamo il vostro dolore e la vostra sofferenza», recita il messaggio. «Anche il popolo russo ha sperimentato gli orrori del terrorismo». E stabilisce che «l’intera comunità internazionale deve mobilitarsi contro il terrorismo» 21. Dopo qualche giorno, esattamente il 24 settembre 2001, il capo del Cremlino torna sulla questione e dichiara la volontà di aiutare concretamente la coalizione a guida americana in marcia verso l’Afghanistan talibano, mettendo a disposizione intelligence e spazio aereo russo.

Putin afferma di non voler contrastare l’installazione di basi militari targate Nato nelle ex repubbliche sovietiche dell’Asia centrale. Un’apertura importante, estremo tentativo di agganciare una Russia ancora a pezzi al bastimento a stelle e strisce. Calcolo sicuramente interessato, ma anche una chance per ricompattare una comunità occidentale che da Gorbačëv in poi viene concepita dalle leadership russe come compresa tra Vancouver e Vladivostok. Un’alleanza in cui la Russia non può fare certo la parte del più forte. Ma può dire la sua, evitando l’accerchiamento. Putin sceglie questa strada anche in base alla simpatia della sua gente verso gli ex nemici. I dati di un sondaggio del marzo 2001 parlano chiaro: l’83% dei russi intervistati è a favore dello sviluppo delle relazioni con Washington e Bruxelles 22.

Il capo del Cremlino è convinto di poter andare a braccetto con il collega americano e nel 2002 firma a Pratica di Mare, Berlusconi auspice, la nascita del Consiglio permanente Nato-Russia.

 

Non fa però i conti con la volontà statunitense di godere fino in fondo della vittoria nella guerra fredda, confermandosi unico gendarme del pianeta, e di molti paesi ex sovietici di sottrarsi al controllo di Mosca saltando sul carro occidentale.

Come l’Ucraina di Kučma, che nel novembre di quell’anno firma il Nato-Ukraine Action Plan. Ancora qualche mese e la coalizione a guida americana sbarca in Iraq per una guerra che a questo punto Putin osteggia. Ma non è finita.

 

Nel novembre di quel 2003 scoppia la prima rivoluzione colorata in Georgia. Verrà battezzata «delle rose» e insedierà come presidente Mikheil Saakashvili, una personalità decisamente schierata con Washington. Un anno dopo ecco la seconda rivolta, questa volta «arancione», proprio in Ucraina. Servirà per eleggere alla massima carica dello Stato Viktor Juščenko, non proprio un amico della Russia.

 

Infine, nel 2005, tocca alla «rivoluzione dei tulipani», nel lontano Kirghizistan. Nel frattempo, il Cremlino guarda attonito all’allargamento di Nato e Unione Europea verso i suoi confini. Nel 2004 entrano nell’Alleanza Atlantica i tre paesi baltici, oltre a Bulgaria, Romania, Slovacchia e Slovenia, con Polonia, Ungheria e Cechia già membri dal 1999. Poi tocca a Bruxelles spingere i suoi confini verso est, integrando tra gli altri Ungheria, Polonia, Slovacchia, Estonia, Lettonia, Lituania, Repubblica Ceca e Slovenia, cui seguiranno Romania e Bulgaria nel 2007. Bocconi amari da mandar giù. Non soltanto per Putin, ma per il paese intero. Se ancora nel 2002 oltre il 50% dei russi dichiara di avere simpatia per gli americani, dopo lo scoppio della guerra irachena il 64% risulta ostile agli Stati Uniti, ben oltre il 53% registrato durante i bombardamenti Nato su Belgrado nel 1999 23.

 

 

L’amico di Milano

Se l’Occidente sembra voltargli le spalle, Putin può ancora contare in Europa su alcuni amici fidati. Tra questi, Silvio Berlusconi. Il politico italiano più discusso del periodo. Un banchiere che da anni lavora e frequenta i circoli del potere putiniano, compreso zar Vladimir, sostiene che il segreto dell’amicizia tra il leader russo e quello italiano è la «fedeltà», fattore che conta più degli interessi politici ed economici. Il loro rapporto, «al di là di tutto il resto», si basa sulla «convinzione che l’altro, l’amico, non ti ha mai tradito e mai lo farà». Il concetto di fedeltà è d’altronde centrale nelle relazioni tra il capo del Cremlino e il suo «cerchio magico», in patria come all’estero. Poi vengono gli affari, anche questi puntuale corollario del circolo più stretto 24. La formula magica con Silvio funziona. E continua a funzionare anche se Berlusconi non siede più a Palazzo Chigi. Il 17 ottobre 2014 il presidente russo arriva con trenta minuti di ritardo alla cena di gala del summit del partenariato Asem, a Milano, ma trova tempo per una visita all’amico italiano, che per l’occasione ha ottenuto una deroga ai domiciliari ad Arcore. La rimpatriata dura sino alle tre e mezza, malgrado il giorno seguente il capo di Stato russo abbia il primo, delicato incontro sulla crisi ucraina alle otto del mattino.

 

I due si conoscono all’inizio del primo decennio del nuovo secolo e nasce subito un sodalizio politico e personale. Nel 2002 Berlusconi già sostiene che la Russia debba entrare nell’Ue, idea peraltro non condivisa da Putin, che – dopo qualche incertezza, all’epoca in cui medita anche sull’ingresso russo nella Nato – ha sempre dichiarato impossibile la piena integrazione tra il continente russo e Bruxelles. Quell’anno le figlie di Putin trascorrono una breve vacanza a Villa Certosa in Sardegna, ospiti del Cavaliere. L’anno successivo è la volta dello stesso presidente russo, accolto da una cena con Andrea Bocelli, dall’eruzione di un finto vulcano e da un nuovo giardino di cactus. Le visite (ufficiali e private) del capo del Cremlino in Italia e, soprattutto, quelle dell’«amico Silvio» in Russia, si moltiplicano. Di alcuni viaggi i giornalisti vengono a sapere tramite i contatti negli aeroporti: «Il Cavaliere sta per partire, destinazione Soči». Oppure la dacia sul lago Valdai. Oppure San Pietroburgo. Compleanni, anniversari, cerimonia di insediamento nel 2012, come con nessun altro leader occidentale. Putin e Berlusconi sono diversissimi, eppure per tanti versi simili. Certamente «compatibili»: entrambi self made men di origini piuttosto modeste, entrambi cultori del genere macho, con un forte senso della famiglia, volentieri irriverenti di fronte alle regole del politically correct praticate a Bruxelles o a Washington, spregiudicati nel gestire le commistioni tra politica e affari, insofferenti all’idea di dover rendere conto delle proprie attività. Per Berlusconi, Putin «è un dono di Dio»; per Putin, Berlusconi è «l’ultimo dei mohicani» della politica. Entrambi, ricorda la stampa russa, ipotizzano di poter vivere 120 anni 25.

 

Come da prassi putiniana, con l’amicizia arrivano gli affari. Degli interessi comuni tra i due politici si è detto e sussurrato molto, ma si sa inevitabilmente pochissimo. Di certo c’è che Eni ed Enel sono le uniche società straniere nel 2007 a partecipare alle aste che concretizzano lo smembramento della compa­gnia petrolifera Jukos dopo l’incarcerazione di Khodorkovskij, una vicenda nel mirino delle critiche internazionali, ma che Berlusconi difende pubblicamente. Vi è ufficiale traccia anche delle insistenze russe per mettere in pista una collaborazione «in paesi terzi», in particolare in Libia. Il versante «business privato» tra Berlusconi e Putin è al centro di ipotesi e ricostruzioni mai confermate. Secondo un dispaccio di WikiLeaks, i due avrebbero valutato l’acquisto, assieme, di una non meglio specificata isola. Si tratterebbe, secondo altre fonti, di un’isoletta presso la Sardegna, da intestare al fratello del presidente russo – operazione sventata dai servizi segreti italiani e americani. Ma, soprattutto, a fine 2010 le indiscrezioni dell’organizzazione che pubblica documenti segreti portano alla luce i dubbi, e una certa esasperazione, dell’allora ambasciatore statunitense a Roma, Ronald Spogli, di fronte all’amicizia fra i leader di Russia e Italia.

 

«Difficile individuare» le basi di questo rapporto, scrive Spogli, riferendo di quanto sostenuto da «contatti sia nel Partito democratico all’opposizione che nel Pdl di Berlusconi»; allusioni a un incrocio di interessi personali e nazionali di cui le visite private e i «sontuosi regali» sono dettagli in fondo di poco conto. Interessi incentrati sul settore dell’energia. L’ambasciatore georgiano in Italia, afferma sempre Spogli, «ci ha detto che Putin ha promesso a Berlusconi una percentuale da ogni gasdotto che Gazprom svilupperà assieme a Eni». Nessuna di queste considerazioni è supportata da prove e sarebbe difficile attendersene. È smentito invece dal Cremlino che il «lettone» piazzato a Palazzo Grazioli fosse un dono di Putin. Dal bunga bunga alle escort vaganti negli appartamenti romani del premier, le vicende di donne e magistratura che accompagnano gli ultimi anni di Berlusconi al governo in Italia sono sempre derubricate dall’amico Vladimir a gossip o poco più. «Se fosse stato gay, nessuno lo avrebbe toccato con un dito», ha detto alla riunione annuale del Club Valdai, a settembre 2013.

 

Gli atti di difesa non richiesti abbondano nella storia della strana coppia. Basti ricordare la mitragliata mimata dal premier italiano in risposta alla domanda di una giornalista russa che osa chiedere conto durante una conferenza stampa dei rapporti tra il presidente russo e l’ex ginnasta Alina Kabaeva. La risposta di Putin è durissima, molto peggio del dito puntato a mimare un fucile, e la giornalista russa scoppia in lacrime. Della vita personale di Putin non si deve proferire parola, in Russia lo sanno tutti. E della Kabaeva si parla poco e sempre al condizionale, anche dopo il divorzio pubblicamente annunciato del leader russo dalla moglie Ljudmila: dell’ex campionessa scelta tra i tedofori alle Olimpiadi di Soči si dice che abbia dato a Putin due figli. Si sussurra anche di un matrimonio in gran segreto, smentito dall’ultima dichiarazione dei redditi del presidente (dove viene riportato lo stato civile), per quanto possa contare un dettaglio del genere.

 

Tornando all’amicizia con Berlusconi, l’uomo di fiducia a Mosca è per anni Valentino Valentini, russofono, puntuale presenza in Russia, con o senza l’ex premier. Valentini è considerato da molti, e non solo da un allarmato ambasciatore americano nei suoi dispacci sull’Italia, un emissario personale dell’ex premier in terra russa, sia per gli affari di governo sia per quelli personali. Tra i personaggi di incerti meriti nelle relazioni russo-italiane a un certo punto emerge Bruno Mentasti Granelli, patron dell’acqua minerale San Pellegrino, un tempo socio di Berlusconi in affari mediatici, che nel 2005 spunta nell’affaire Centrex-Gazprom, poi bloccato dalla magistratura. Attraverso una lunga catena di quote azionarie e società con sedi offshore, il colosso russo del metano punta alla distribuzione diretta all’utente finale del gas in Italia. Centrex e Mentasti non concludono l’accordo, anche se poi Gazprom ottiene l’ok all’ingresso nel mercato italiano come do ut des nella partita della rinegoziazione dei contratti per le forniture dalla Russia. Di questi intrecci Berlusconi non rende mai conto al paese. Nel marzo 2012, dopo l’ennesima visita in Russia – questa volta a Soči, a un anno dalle Olimpiadi invernali e subito dopo la rielezione di Putin al Cremlino – un deputato russo chiede alla procura di chiarire «gli scopi» del soggiorno dell’ex presidente del Consiglio italiano nella cittadina stretta tra il Mar Nero e le montagne del Caucaso. La domanda di Sergej Mitrokhin di Jabloko, che ipotizza «affari legati alla corruzione», cade nel vuoto. I media internazionali ottengono intanto, a profusione, immagini di Putin, Berlusconi e Medvedev tra passeggiate, impianti sciistici e ristoranti, sorridenti e rilassati, come raramente accade al capo del Cremlino in compagnia di leader internazionali.

 

«Sono davvero amici. Vladimir Vladimirovič con Silvio si trova bene, sa di potersi lasciare andare, cosa impossibile con tutti gli altri leader», argomenta un funzionario del vastissimo corteo diplomatico che accompagna Putin all’estero e che, naturalmente, vuole restare anonimo. Gli affari? «Magari ci sono, ma è una cosa secondaria». Come sempre per il leader russo: agli amici non si negano favori, con gli amici si possono fare affari, si deve, proprio perché ti puoi fidare. La relazione di amicizia e business più simile a quella con Berlusconi, Putin la intrattiene con l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schröder, al quale assicura tra l’altro la veloce adozione di una bimba russa, e che accetta di buon grado la presidenza del consorzio del gasdotto Nord Stream. Per il South Stream il Cremlino pensa a Romano Prodi, interlocutore per altri versi molto gradito a Putin, ma il professore declina velocemente.

 

 

Il secondo mandato

 

Quando nel 2004 i russi sono chiamati a eleggere il nuovo presidente, il sentimento è quello di essere accerchiati. E si stringono intorno al loro leader. Putin sale nuovamente al Cremlino con il 71,2% delle preferenze. Il paese, benché scosso da attentati e omicidi di personaggi scomodi, sta uscendo dalla crisi economica e sociale. Gli stipendi e le pensioni vengono pagati regolarmente, il tasso di crescita si assesta intorno al 6-7%. La povertà si dimezza. Il debito è ridotto e le riserve aumentate. Le aziende transnazionali vanno a meraviglia e le entrate dei prodotti energetici accrescono la ricchezza del paese. Lo Stato stringe il controllo su tutto, anche sui governatori che adesso vengono nominati direttamente dal Cremlino. È la mattanza di Beslan a imprimere nuovo impulso alla centralizzazione del potere.

 

Oltre confine Mosca non vuole giocare soltanto in difesa e fissare i suoi obiettivi strategici soltanto in risposta a quelli altrui. Putin sceglie di diversificare gli interessi del paese e nel corso del secondo mandato risolve le dispute di confine con la Cina, inizia a rivolgere attenzione e progetti alla rinascita della Siberia e dell’Estremo Oriente russo, sfida Stati Uniti e paesi rivieraschi nelle acque gelide dell’Artico.

Qui spedisce un paio di minisommergibili a piantare il tricolore russo nel fondale che corrisponde al Polo Nord. Qui rivendica il diritto a far propri 1,2 milioni di chilometri quadrati di acque che nascondono un eldorado di risorse energetiche delle quali il paese non può fare a meno. Il leader del Cremlino rinsalda legami con paesi in ascesa sul teatro internazionale e non smette di fare affari con l’Iran. Putin è il primo presidente russo in visita ufficiale in Israele. E Mosca diventa membro osservatore dell’Organizzazione della Cooperazione Islamica. Nel ricordarlo, durante il discorso che tiene alla prima sessione del parlamento ceceno nel 2005, Putin afferma: «La Russia è sempre stata la più leale, sicura e credibile paladina degli interessi del mondo musulmano», e, conclude, «la migliore e più affidabile alleata» 26.

 

Putin è lanciatissimo. La Russia ottiene l’organizzazione dei Giochi olimpici invernali 2014Time lo nomina uomo dell’anno 2007 e spiega perché: «La Russia è centrale nel nostro mondo e nel nuovo mondo che sta nascendo. (…) E se riuscirà come Stato nazionale nella famiglia delle nazioni dovrà molto di quel successo a Vladimir Vladimirovič Putin». Secondo la testata americana, quando il «cupo» agente del Kgb diventa presidente trova un paese sull’orlo della bancarotta, che riesce con «persistenza» a ricollocare sul mappamondo. Certamente il leader del Cremlino «non è un boy scout» né un fulgido esempio di democratico in salsa occidentale. Putin ha voluto scientemente, secondo il settimanale, anteporre la stabilità alla libertà per far sedere nuovamente il paese al tavolo dei grandi 27.

 

Tutto questo non basta certo a ricucire lo strappo tra Russia e Stati Uniti. Putin ne è cosciente e tiene tesa la corda. Nel discorso di Monaco dell’11 febbraio 2007, il leader russo si scaglia contro il modello unipolare americano per la guida del pianeta. Lo considera impraticabile perché nessuna potenza ha i mezzi per realizzarlo e perché stanno nascendo nuovi centri di potere. Parla del disprezzo per i princìpi fondamentali del diritto internazionale e cita al riguardo Washington, rea di aver oltrepassato in ogni modo i propri confini nazionali. Putin si scaglia contro la mancata ratifica da parte dei paesi Nato del Trattato sulla riduzione delle Forze armate convenzionali in Europa e denuncia il fatto che l’Alleanza Atlantica abbia invece «dislocato le sue forze» ai confini della Federazione. Chiede: «Contro chi è questa espansione? E cosa è successo alle assicura­zioni dei nostri partner occidentali fatte dopo la dissoluzione del Patto di Varsavia? Dove sono oggi quelle dichiarazioni? Nessuno nemmeno le ricorda».

Ma lo fa lui citando quanto affermato dal segretario generale Nato il 17 maggio 1990 a Bruxelles: «Il fatto che siamo pronti a non schierare un esercito della Nato fuori dal territorio tedesco», spiegava Manfred Wörner, «offre all’Unione Sovietica una stabile garanzia di sicurezza». Dove sono queste garanzie?, chiede Putin28.

 

Il discorso di Monaco suscita grande clamore. La Russia è tornata a contare. Il suo paladino è sempre più forte e si sbarazza di ogni dissenso e ogni propaggine di controllo straniero in terra russa, vedi il bando sulle ong. Putin deve anche preparare il terreno per la sua successione. Entro un anno dovrà lasciare il Cremlino, come da costituzione. Lo farà o in barba alle leggi rimarrà al suo posto? In Occidente si scatenano le previsioni e si cerca di capire chi, nel caso, sarà scelto come nuovo presidente. I russi intanto, secondo un sondaggio dell’epoca, tornano almeno un po’ ad aver simpatia per Washington. La percentuale di chi si proclama antiamericano scende al 58%. Cifra destinata a risalire quando il 7 febbraio 2008 il direttore della National Intelligence statunitense (Coni) presenta al Senato il rapporto sulle minacce per il paese.

Tra queste di nuovo la Russia, che preoccupa tra le altre cose per la crescita economica, finanziaria e scientifica e la recuperata aggressività energetica. Era dal 1991 che Mosca non compariva nella lista dei cattivi stilata da Washington 29.

Adesso, insieme alla Cina, è nuovamente un nemico. Mancano pochi giorni all’addio di Putin al Cremlino. Il presidente ha già scelto il suo successore: sarà Dmitrij Medvedev, guarda caso uno dei «ragazzi di San Pietroburgo». Lui resta a guidarlo da primo ministro. Ma prima di passargli lo scettro Putin si congeda con il discorso dell’8 febbraio 2008, nel quale rivendica quanto fatto per il paese. Di come ha dovuto combattere contro una burocrazia inefficiente e corrotta, una crisi economica disastrosa e Forze armate insufficienti. Di come la Russia è venuta fuori dalle paludi degli anni Novanta, sicché lui è riuscito a porre fine alla guerra cecena e a riportare la sua patria a contare sulla scena mondiale.

 

Putin soprattutto denuncia l’espansione della Nato verso i confini russi: «Noi abbiamo chiuso le nostre basi a Cuba e in Vietnam, ma cosa abbiamo ottenuto in cambio? Nuove basi americane in Romania e in Bulgaria, e un nuovo sistema di difesa antimissile le cui componenti gli Usa hanno intenzione di installare al più presto in Polonia e nella Repubblica Ceca». Il presidente uscente però non chiude la porta e si dice ancora interessato a una cooperazione vantaggiosa con chiunque. Senza nessuna intenzione di isolare la Russia dal mondo30. Ma chiarirà proprio a Limes qualche giorno dopo che se anche sarà più facile approcciare il nuovo presidente, visto «quanto è difficile parlare con un ex agente del Kgb», nessuno deve dimenticare che «lui», Medvedev, «è un nazionalista russo non meno di me», e che da «autentico patriota difenderà gli interessi russi nel mondo»31.

Il ‘cerchio magico’

Bisogna infine ricordare che il fenomeno Putin è frutto anche di un lavoro di «squadra». Di un gruppo di persone fidate che il presidente organizza da sempre con cura, applicando con precisione quasi scientifica un meccanismo di pesi e contrappesi che gli garantisce in ultima istanza, e sempre, il primato assoluto. Sin dall’inizio della sua missione al Cremlino, il successore di El’cin crea la sua «famiglia», assegnando incarichi e posti chiave ad amici, collaboratori sperimentati in passato, parenti. In maggioranza pietroburghesi, conosciuti durante gli anni allo Smol’nyj, il palazzo del governatore sulla Neva. In buona parte quadri dei servizi segreti, ex Kgb traghettati nel nuovo Fsb, l’unica struttura sopravvissuta allo sfaldamento dell’Urss senza troppi smottamenti.

 

Tutte persone di comprovata fedeltà, capaci, su richiesta, di giocare in squadra, ma in fin dei conti molto diverse e anche per questo costantemente in lotta tra di loro. Con il criterio della «fedeltà prima di tutto» arrivano al Cremlino e dintorni l’attuale capo dell’amministrazione presidenziale Sergej Ivanov (ex Kgb), il già citato capo di Rosneft’ Igor’ Sečin (ex Kgb), il segretario del Consiglio di Sicurezza Nikolaj Patrušev (ex Kgb), ma anche il più giovane Dmitrij Medvedev, il «reggente» negli anni 2008-12. Ai fedelissimi vengono assegnati posti chiave nell’apparato di Stato, nelle società pubbliche, nelle finanze. Per tutti il potere, e la ricchezza, sono assicurati. Ma nessuno ha il futuro garantito, come insegna la parabola di Anatolij Serdjukov, caduto in disgrazia per una vicenda di corruzione e forse soprattutto per aver abbandonato la seconda moglie, figlia del potente ex premier Viktor Zubkov, un altro incrocio tra affari e famiglia consumato tra membri del cosiddetto clan pietroburghese.

 

In sostanza il sistema putiniano, spiega un giovane consulente che lavora per molti personaggi e società del più stretto entourage presidenziale, funziona come un Olimpo: sulla vetta c’è Zeus, sotto, tutti gli altri dèi, a ciascuno viene affidato un settore, ma per tutti può arrivare in qualsiasi momento una letale frecciata dal dio sovrano. Spesso il capo delle divinità affianca sullo stesso dossier due persone e si rivolge all’una e all’altra, mettendole in competizione. Ad esempio, a fianco del gran visir del gas e capo di Gazprom Aleksej Miller c’è un top manager che compare poco in pubblico e che godrebbe di crescente stima presso Putin, Valerij Golubev. Il round di sanzioni varato a marzo dagli Usa e dall’Ue, il primo che prende direttamente di mira il «cerchio magico» attorno al capo, rappresenta un conciso ma lacunoso who’s who di chi conta nelle alte sfere russe. Vi troviamo Sergej Ivanov, considerato il falco tra i falchi, il magnate Gennadij Timčenko, titolare della trading company energetica Gunvor (sospettata di avere Putin tra i diretti beneficiari), oltre ai fratelli Arkadij e Boris Rotenberg, amici personali di lunga data del presidente. Non vi figurano i big delle società energetiche, né Miller né Sečin, evidentemente per non complicare troppo le relazioni economiche e non certo per segnalare un raffreddamento nei rapporti tra il Cremlino e i pezzi grossi dell’energia.

 

Eppure una presa di distanza c’è stata: Sečin è sempre molto vicino a Putin, «però da tempo non è più un suo confidente», conferma il consulente dell’élite moscovita. Il capo di Rosneft’, collaboratore di lunghissimo corso del presidente, è molto attento alle sorti finanziarie della major cresciuta sulle ceneri della già citata Jukos (ex di Khodorkovskij), e non ha quella dimensione politica e ideologica diventata centrale nel terzo mandato di zar Vladimir. Con il Putin-tris è tramontato anche l’astro di Vladislav Surkov, l’ideologo della verticale del potere, il meccanismo di controllo totale, dal massimo vertice all’ultimo consiglio di quartiere, andato in crisi con il ritorno alla presidenza nel 2012. Surkov avrebbe manifestato troppo interesse per il campo liberale, facendo sorgere dubbi sulla sua lealtà. Risultato: licenziamento e poi recupero in versione ridimensionata, con deleghe ai rapporti con Abkhazia, Ossezia del Sud e poi Ucraina.

Più semplicemente, c’è chi ritiene che l’acutissimo, imprevedibile, geniale Surkov sia stato fatto fuori dal terrigno, duro, concreto Vjačeslav Volodin, per prendere il suo posto come numero due dello staff presidenziale. Volodin non è tra i consiglieri di Putin, ma concentra nelle sue mani un potere enorme. La verticale ora la gestisce lui. È quindi potenzialmente pericoloso e non a caso coglie ogni occasione per ribadire la sua devozione. «Senza la Russia non c’è Putin e senza Putin non c’è la Russia», ha decretato di recente, scatenando un polverone. Al gran sovrano, però, non sarebbe dispiaciuto: «È chiaro che la Russia è tutta la mia vita», ha commentato.

 

Il «cerchio magico», quindi, è andato restringendosi dopo il non semplice ritorno al Cremlino e poi sulla scia della crisi ucraina. L’annessione della Crimea, afferma un altissimo funzionario del Cremlino alla riunione del Valdai Club 2014, Putin l’ha decisa consultando «un circolo molto ristretto» di collaboratori. Tradotto da cremlinologi e fonti governative, solo il segretario del Consiglio di Sicurezza Patrušev e il ministro della Difesa Sergej Šojgu sarebbero stati chiamati a condividere la sfida alla comunità internazionale formalizzata con il trattato di adesione della penisola alla Federazione Russa lo scorso 18 marzo. Si vocifera molto, infine, di «tre giovani dell’Fsb, ammessi a consigliare il presidente su base regolare», tuttavia nessuno sa fare nomi e tanto meno dare dettagli. Certo nella lista dei fedelissimi figurano anche Aleksandr Bortnikov e Mikhail Fradkov, rispettivamente capo dell’Fsb e dell’Svr, l’agenzia per lo spionaggio estero.

 

Misteri, dietrologia, sospetti. Tra sanzioni, punti interrogativi sulla crisi ucraina e, all’interno, una stretta sulle libertà civili, l’atmosfera nei palazzi moscoviti del potere è carica di incertezza. Si respira un’aria di torbidi, malgrado Putin goda di tassi di popolarità senza precedenti e il «ritorno» della Crimea abbia scatenato un’ubriacatura patriottica che va avanti da mesi. Le incognite politiche, i problemi di un’economia in bilico sull’orlo di una nuova recessione stanno acuendo le divisioni in seno al «cerchio magico» putiniano. I cosiddetti liberali sono sempre più lontani dallo zar, concentrato su un braccio di ferro con l’Occi­dente che forse avrebbe voluto interrompere qualche mese fa e che lo porta a confrontarsi («poco», assicura un membro dello staff presidenziale) essenzialmente con i responsabili dei ministeri della forza.

 

Vladimir Vladimirovič è un leader sempre più solo. Forte delle divisioni tra i suoi, negate strenuamente, eppure evidenti, sottotraccia. E da queste divisioni minacciato.

 

Nel clima di indeterminatezza che si proietta sul futuro a medio termine della Russia, se non a breve, gli dei minori fanno a gara per giurare fedeltà a Putin. E nessuno, dall’Olimpo all’ultimo villaggio, osa ipotizzare un eventuale cambio al vertice nei prossimi anni. Secondo recenti sondaggi, sventolati dallo stesso Volodin, almeno il 66% dei russi non vede alternativa a un quarto mandato di Vladimir Vladimirovič nel 2018. Di certo il presidente non vuole danneggiare il paese restando a vita capo del Cremlino. A un quarto mandato penserà più in là 34. Se deciderà, come prevedibile, per il sì avremo un quarto di secolo con Putin al potere: davvero la Russia fatta persona.

1. putin.kremlin.ru/bio

2. english.pravda.ru/business/finance/05-11-2002/1528-putin-0

3. www.themoscowtimes.com/news/article/tmt/223981.html

4. www.mk.ru/editions/daily/article/2005/12/06/188490-familnaya-tayna-prezidenta.html

5. Testimonianze su www.youtube.com/watch?v=SqZ2bUxoTPo e www.youtube.com/watch?v=a-2lZizUi40M

6. it.groups.yahoo.com/neo/groups/liga-veneta/conversations/topics/1020

7. L. GIANOTTI, Putin e la Russia, Roma 2014, Editori Riuniti, pp. 17-20.

8. www.rferl.org/articleprintview/1065792.htlm

9. A. VITALE, «Il potere in Russia: continuità e trasformazioni», www.ispionline.it/it/EBook/OltreLaCrimea.pdf

10. www.stratfor.com/analysis/russian-oligarchs-part-2-evolution-new-business-elite?topics=286#axzz3Ggr33MZ1

11. www.newsweek.com/chill-moscow-air-113415

12. L. CASTELLINA, Siberiana, Roma 2012, Nottetempo, p. 34.

13. nationalinterest.org/article/vladimir-putin-on-russian-energy-policy-600

14. www.washingtontimes.com/news/2006/mar/24/20060324-104106-9971r/?page=all

15. www.stratfor.com/analysis/russia-after-putin-inherent-leadership-struggles#axzz3Ggr33MZ1

16. www.ispionline.it/it/documents/Commentary_Alessandrello_07.03.2012.pdf

17. archive.kremlin.ru/appears/2005/04/25/1223_type63372type63374type82634_87049.shtml

18. www.nytimes.com/1999/11/14/opinion/why-we-must-act.html

19. www.globalresearch.ca/who-is-vladimir-putin-why-does-the-us-government-hate-him/5381205

20. temi.repubblica.it/limes/i-fragili-superpoteri-di-vladimir-putin/56475?printpage=undefined

21. eng.kremlin.ru/news/15263

22. www.colorado.edu/IBS/PEC/johno/pub/Putin_911.pdf

23. www.liberalfondazione.it/tutti-i-numeri-di-risk/655-e-putin-perse-la-guerra-dei-sondaggi

24. www.ft.com/intl/cms/s/0/26133b68-0ce2-11dd-86df-0000779fd2ac.html#axzz3JsrVDiEb

25. Dožd’ tv, 13/3/2012.

26. www.eurasia-rivista.org/vladimir-putin-discorso-alla-prima-sessione-del-parlamento-della-repubblicacecena/ 893

27. content.time.com/time/specials/2007/personoftheyear/article/0,28804,1690753_1690757_1696150,00.html

28. archive.kremlin.ru/eng/speeches/2007/02/10/0138_type82912type82914type82917type84779_118123.shtml

29. limes.espresso.repubblica.it/2008/02/15/lamerica-teme-di-nuovo-mosca/?p=482

30. archive.kremlin.ru/eng/speeches/2008/02/08/1137_type82912type82913_159643.shtml

31. V. TRET’JAKOV, «Progetto Russia, che cosa vogliono Putin e Medvedev», Limes, Progetto Russia, n. 3/2008, p. 28.

32. www.theweek.co.uk/world-news/57026/if-vladimir-putin-seriously-ill-it-matters-world

33. pagesix.com/2014/10/24/cancer-rumors-swirl-around-putin/?_ga=1.93068762.675144816.1416739388

34. eng.kremlin.ru/news/23274

Pubblicato in: LA RUSSIA IN GUERRA – n°12 – 2014

 

 

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1 risposta a MAURO DE BONIS, ORIETTA MOSCATELLI, IL GEMELLO DIVERSO: APPUNTI PER UN RITRATTO DI VLADIMIR VLADIMIROVIC PUTIN — LIMESONLINE DEL  18 DICEMBRE 2014

  1. ueue scrive:

    Personaggi che meriterebbero il genio di Shakespeare oppure la satira da rivista, comunque pericolosi.

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