LORENZO TROMBETTA :: Cento anni dopo, in Libano è game over ( IL GIOCO E’ FINITO ) –LIMES ONLINE –3 LUGLIO 2020

 

 

LIMES ONLINE –3 LUGLIO 2020

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Cento anni dopo, in Libano è game over

Carta di Laura Canali - 2018

Carta di Laura Canali – 2018

 

 3/07/2020

Sullo sfondo del rapido impoverimento di una società senza prospettive gravano timori di guerre interne e regionali, allarmi di carestie, incremento di suicidi e criminalità. L’estate libanese potrebbe essere l’ultima di un sistema ormai al collasso.

 

di Lorenzo Trombetta

ARTICOLI, DA NON PERDERE, LO STRILLONE DI BEIRUT – RASSEGNA SUL E DAL MEDIO ORIENTE E DAL NORD AFRICA, LIBANO, ECONOMIA, HEZBOLLAH, MEDIO ORIENTE

Questo articolo è stato scritto prima dell’esplosione che ha devastato Beirut il 4 agosto 2020.

 

Il Libano è un giocattolo rotto e irreparabile.

Cento anni dopo la sua nascita e trenta dopo la fine formale della guerra civile, stanno crollando una dopo l’altra le certezze che lo hanno tenuto in piedi. E che, per lunghi tratti della sua storia, lo hanno mostrato al mondo e ai libanesi stessi come luogo di incontro e negoziazione. Dove fare affari e arricchirsi, ma anche nascondersi dalla legge, riciclare e riciclarsi, per poi riapparire puliti e vincenti.

Come neve al sole si sta sciogliendo di fronte ai nostri occhi quel che rimaneva della patina di normalità che rendeva ancora il Libano un luogo accettabile, presentabile se visto dal buco della serratura.

Nasce da questo senso di impotenza di fronte all’inevitabile game over la rabbia che si prova nel leggere le abusate etichette di “Svizzera del Medio Oriente” per il Libano o di “Parigi del Medio Oriente” per Beirut, buone solo a riempire i testi di improvvisati esperti, vittime del più volgare degli orientalismi.

Dall’inizio ufficiale della crisi economica, un anno fa, sono decine le persone, tra libanesi e stranieri, che si sono tolti la vita, o hanno tentato di togliersela, a causa dell’assenza di prospettive.

Sono ormai assediate le banche libanesi, che per decenni hanno costituito la pietra angolaredella fiducia internazionale e interna in un sistema che sembrava immortale.

La sede dell’Associazione delle banche tra la via di Gemmayze e Piazza dei Martiri sembra una base militare in un territorio ostile. Lamiere saldate. Saracinesche di ferro abbassate. Slogan dei suoi nemici che chiedono “la caduta del regime delle banche”. La sede della Banca centrale, da un trentennio guidata dallo stesso governatore, appare all’imbocco della via Hamra (il suq per eccellenza!) come il quartier generale di una forza di occupazione malvagia e crudele, circondata da una popolazione che finora non ha mostrato le pietre della sua intifada.

 

Carta di Laura Canali, 2007Carta di Laura Canali, 2007

 

La cronaca è sufficiente a dare l’idea del punto di non ritorno cui si è giunti: un uomo di Sidone si è suicidato nelle ore che hanno preceduto la scrittura di questo articolo. È uno dei tanti, ormai.

La Società elettrica non ha carburante per far funzionare le sue centrali. E le società private di generatori elettrici hanno cominciato a razionare la diffusione di corrente elettrica. Una decisione che non riguarda solo le periferie e le zone rurali più povere, ma anche i quartieri bene della capitale. La bolla sta per scoppiare.

Il governo e il Fondo monetario internazionale (Fmi) hanno di fatto sospeso i negoziati per la concessione di finanziamenti al paese dei cedri. Il governo aveva dichiarato a marzo il default, per poi annunciato un piano di riforme approvato dal parlamento a maggio.

In molti pensavano che questa mossa avrebbe fatto spalancare, come per magia, i forzieri del Fondo monetario internazionale, facendo arrivare al Libano i soldi necessari per andare avanti in un sistema ormai rotto. Ma l’Fmi non è una istituzione del Libano, dove esistono diversi livelli di formalità e informalità. E dove i vari attori che comandano nelle varie stanze dei bottoni formano un cartello mafioso e corrotto di connivenze.

Come ha precisato oggi il ministro delle finanze, Ghazi Wazni, i negoziati col Fmi formalmente “proseguono”, ma di fatto sono in una fase di stallo a causa di divergenze tra il governo, l’Associazione delle banche e la Banca centrale circa il calcolo delle perdite economiche registrate dalla bilancia dello Stato negli ultimi anni.

Secondo i media locali, i negoziatori del Fondo si attendono dalle autorità libanesi cifre esatte sulle perdite e si aspettano di vedere applicate le riforme approvate dal parlamento lo scorso maggio. Nell’ultima riunione del governo, tenutasi ieri a Beirut, hanno partecipato rappresentanti delle Associazione delle banche e della Banca centrale. Le banche partecipano alla riunione del consiglio dei ministri.

Nei giorni scorsi si è fatto da parte, dopo vent’anni, il direttore generale del ministero delle Finanze, Alain Bifani, proprio a causa delle divergenze esistenti sul calcolo delle perdite richiesto dal Fondo monetario internazionale.

In linea con l’assenza di trasparenza che domina il sistema, Bifani non ha detto tutto sulle proprie dimissioni. Si possono fare congetture. C’è chi ha parlato di forti pressioni ricevute da Bifani da parte di un “leader di un importante partito”, ma in assenza di certezze queste e mille altre illazioni rimangono chiacchiere da bar o, meglio, da social media

Prima di promettere anche solo un centesimo, l’Fmi pretende dati certi e trasparenti. Non funziona così in Libano. L’Fmi pretende che vengano avviate le riforme già approvate. Non funziona così in Libano.

Il cartello dei capi-bastone fa perno proprio sull’assenza di trasparenza e sull’attendismo. Nascondendosi dietro una finta dialettica istituzionale, dietro i tempi della “legislatura” e dell’azione di governo, delle “procedure burocratiche”. Condendo il tutto con tonnellate di dichiarazioni retoriche, finto patriottiche, quasi vuote, piene solo di un avvertimento mafioso che suona, di fatto, così sinistro: o noi o bruciamo il paese.

Sia ben chiaro, nessuna milizia ha scritto questo slogan sui muri delle contrade libanesi. A differenza di quanto hanno fatto i lealisti siriani dal 2011 in poi, quando il potere di Bashar al-Asad era stato messo per la prima volta pubblicamente in discussione. Ma quando il presidente della repubblica libanese, Michel Aoun, ha detto, la settimana scorsa, che “la linea rossa è la pace civile” (as-silm al-ahli), era questo avvertimento che voleva rilanciare.

La “pace civile”, un’espressione tanto rassicurante quanto ambigua, equivale al mantenimento dello status quo che tiene in piede il loro continuo arricchimento. A discapito di greggi di persone – cittadini mai! – membri di comunità, addomesticati a essere docili o violenti a seconda della volontà del loro za’im (leader) di riferimento.

La dichiarazione di Aoun è solo l’ultima, in ordine di tempo, di una lunga sfilza. I leader membri del cartello al potere lo hanno detto in vari modi. C’è chi evoca il tradimento di presunti “collaborazionisti del nemico” o di “venduti alle ambasciate”. C’è chi parla di pericoli di guerra contro Israele. C’è chi rispolvera la retorica della “o questo o la guerra civile”, la cui memoria non è mai stata affrontata nel dopo guerra.

Dalle parole ai fatti, i capi-bastone hanno tentato con successo più volte di riproporre il paradigma della violenza intercomunitaria, ribadendo il concetto: o lo status quo o il conflitto. E quindi servizi di sicurezza, dominati da quello o da quell’altro ex signore della guerra, che si sono impegnati a aizzare violenze e disordini, confondendo l’opinione pubblica interna e straniera su quale fosse la rabbia genuina della gente, per una condizione socio-economica sempre meno sopportabile, quale fosse la rabbia innescata in funzione reazionaria.

Mentre nei giorni scorsi si è tornato a parlare con insistenza, dentro e fuori il Libano, di “rischio carestia”, di “razionamento dei beni di prima necessità”, di “avvisi delle ambasciate a lasciare il paese prima di luglio”, di una “imminente nuova guerra tra Hezbollah e Israele“, l’aeroporto di Beirut ha riaperto dopo quasi quattro mesi di chiusura nel contesto delle misure anti-coronavirus.

Il governo ha lanciato uno slogan di apertura nei confronti degli espatriati, le cui rimesse in dollari sono quest’anno quanto mai necessarie. E pur di non limitare l’ingresso a nessuno, è stato imposto un sistema discutibile di duplici test sanitari per il Covid-19. I test sono a pagamento. E la tariffa è stata fissata in dollari statunitensi.

La lira locale ha perso più del 75% del suo valore negli ultimi mesi: si è passati da 1.500 lire per un dollaro a 9mila lire (2 luglio) nel mercato reale – non chiamatelo “nero”. Le banche hanno aggiornato il tasso di cambio prima a 3mila (impensabile solo un anno fa) e poi, di recente, a 3.850 lire per un dollaro.

Quando l’operatore telefonico di una delle maggiori banche del Libano mi ha confermato questo dato, la conversazione ha assunto un tono surreale. Il servizio clientela risponde formalmente a una domanda del cliente, il sottoscritto, che ha inviato la richiesta tramite il sito online.

Come se fosse un paese normale. Ma la realtà è un’altra. E alle due estremità dei telefoni impegnati nella conversazione si aveva la consapevolezza dello iato tra realtà e finzione.

Nel minimarket di un quartiere della media borghesia di Beirut c’era talmente tanta gente che ogni richiamo al distanziamento sociale sembrava provenire da un film distopico di realtà lontane.

Nel negozio respirava aria di tensione, mista a olezzo di sudore e imprecazioni mormorate dietro le mascherine appoggiate al viso tenendo le narici scoperte. Il sistema di aria condizionata era spento per dare la priorità al funzionamento del banco frigorifero della carne. C’è chi si lamentava del fatto che il commesso pesava più grasso che carne macinata sulla bilancia, lasciando comunque registrato il prezzo – ormai alle stelle – della carne rossa di prima qualità.

La carne, appunto. Quella che mancherà d’ora in poi nei piatti serviti alle mense dei soldati dell’esercito, impegnati da mesi nel contenere le proteste popolari. E’ una misura che si aggiunge al graduale impoverimento dei gradi medio-bassi dell’esercito libanese causato soprattutto dalla svalutazione della lira, valuta con cui ricevono il salario mensile. Prima dell’autunno scorso un sottufficiale riceveva al mese circa 900 dollari in lire libanesi. Ora, di fatto, è come se prendesse 250 dollari.

In questo clima c’è chi ancora cerca di dare la colpa agli altri. Se non c’è carburante per far funzionare le centrali elettriche, esponenti delle istituzioni affermano che la responsabilità è della società petrolifera algerina, Sonatrach, che ha consegnato carichi di combustibile non adatti alle centrali libanesi. “Attendiamo un nuovo carico per la prossima settimana”, dicono, sperando che la gente continui ad andare avanti così, superando di volta in volta la crisi del momento. E non è da escludere che la pazienza vinca, per ora, sulla disperazione.

A proposito delle colpe degli altri, c’è da ricordare che la guerra civile libanese ancora oggi viene da molti libanesi raccontata come “la guerra degli altri”. E che Hezbollah ha accusato nei giorni scorsi gli Stati Uniti, i quali hanno imposto nuove sanzioni al governo siriano e ai suoi alleati, di voler “affamare i libanesi e i siriani”.

Tengono per ora a bada la propria base popolare proprio Hezbollah e l’alleato movimento sciita Amal, capeggiato dall’inamovibile presidente del parlamento Nabih Berri. Elargendo briciole di stipendi e servizi per far sopravvivere, in tale situazione sempre più disperata, le comunità sciite del Sud e della Biqaa. Queste per ora non hanno aderito in massa alle proteste popolari, che invece scandiscono le giornate a Sidone, Tripoli, Beirut, la zona centrale della Biqaa.

Ma la lezione irachena è dietro l’angolo. Nel 2018 e nel 2019 le proteste nell’Iraq sciita sono scoppiate proprio a causa della mancanza di elettricità nel caldo torrido di quelle regioni. Le proteste sono diventate in poco tempo politiche, con toni anti-iraniani e anti-milizie filo-iraniane.

Non a caso, quest’anno l’Iran ha proposto – col placet di Washington – di fornire elettricità all’Iraq. Si spera così di impedire nuove proteste. Analogamente, il Partito di Dio e i suoi alleati sperano che basterà continuare a distribuire prebende e servizi di base per evitare una sollevazione interna.

Ma la schermata game over è apparsa sugli schermi di tutti. Il giocattolo si è rotto.

 

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